L’emergenza immigrati si supera applicando la Convenzione di Ginevra e la legge del mare. Punto

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Al dibattito sull’immigrazione ho finora rifiutato di partecipare per sottrarmi alla scelta fra due opposti slogan: 1 “Allora vuoi lasciarli morire in mare?”; 2 “Allora dovremmo prenderli tutti?” Modi inaccettabili di affrontare qualsiasi problema, anche il più banale. Visto che la risposta c’è già: rispettare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e la legge del mare. Punto. Improvvisamente il ministro Marco Minniti ha cambiato linguaggio, abbandonando quello dei “confini e dei ponti”, che onestamente non capivo. Non esistono paesi degni di questo nome senza confini, i ponti servono per passare da un paese all’altro nel rispetto delle reciproche leggi. Caricarli di altri significati indica la volontà di farsi delle seghe mentali.
Da qui occorre partire, dal rifiuto dei tre governi che si sono succeduti (Letta 10 mesi, Renzi 34, Gentiloni 7) di declinare correttamente due concetti:
1 Non esiste alcun esodo biblico dall’Africa all’Europa per fame. Nessun affamato africano possiede 3-5.000 $ per intraprendere il viaggio. Sono migranti economici come lo erano i miei nonni-zii delle zone montane della Lunigiana e della Garfagnana, andati in California a inizio ‘900, non per fame, ma per avere un futuro migliore. Erano alti, sani, robusti, come i migranti di Ventimiglia, che vogliono andare in Francia. Andarono in America pagandosi il viaggio, sulla base però di un protocollo firmato da Theodore Roosevelt e da Vittorio Emanuele III (sulle navi cargo c’era persino un Commissario governativo).
2 Definire “emergenza”, come ha detto il premier Gentiloni, un’attività che dura dal 2013, e che ha portato in Italia 600.000 “illegali” è una presa in giro. La parola chiave è “illegali”. Noi li abbiamo accolti pur sapendo che lo erano, in nome di un “buonismo terzomondista” di cui la nostra sinistra è da sempre impregnata. Bene, anzi male, ma ora possiamo chiudere porti, porticcioli, attracchi sul Tevere o sui Navigli, di certo nessun partner europeo ne prenderà mai neppure uno (lo si vede al confine Mentone-Ventimiglia: il bonapartista Emmanuel Macron parla e si muove come Marine Le Pen). Le Ong l’hanno capito, mai che mettano la prua su Malta, Baleari, Corsica, Tunisi, come direbbe la legge del mare. Angela Merkel ci aveva dato la soluzione: una tangente di 3 miliardi € anno a uno stato canaglia (nel caso suo, Erdogan) per campi di concentramento gestiti da kapò turchi (qua l’ipocrisia tedesca ha toccato il suo picco). In quel momento dovevamo pretendere di fare altrettanto o sulle coste libiche o al confine sud della Libia.
I nostri governanti invece hanno privilegiato, da un lato l’ideologia salottiera (buonista-terzomondista), dall’altro chiuso entrambi gli occhi sulla catena logistica “Scafisti (business model tipo Amazon), “Ong” (model Ups), “Porti” (model portieri di stabili), “Centri per l’immigrazione” (model Coop, rosse e bianco-gialle), così spendiamo 4,6 miliardi anno (Mafia Capitale ci ha raccontato come la somma si scompone) per accogliere centinaia di migliaia di “illegali” che in Italia ci rimarranno per sempre. Gli altri paesi applicano leggi e trattati, noi no, punto.
Su un giornale svizzero ho letto una possibile soluzione operativa sulla quale l’Europa potrebbe seguirci dandoci supporto, in quanto sarebbe coerente con la Convenzione di Ginevra e di Dublino: i “respingimenti assistiti”. Le navi italiane e quelle europee in coordinamento comune, si diano come regola di ingaggio quella di supportare la Guardia costiera libica (con i pochi mezzi forniti dall’Italia stanno già facendo un grande lavoro) per salvarli, toglierli dalle grinfie degli scafisti e riportarli in Libia, sani e salvi. Qua dovrebbero essere allocati provvisoriamente nei campi Onu (i caschi blu sono meglio dei kapò turchi), poi aiutati, anche economicamente, a essere rimpatriati nei loro paesi. Pochi mesi di applicazione rigorosa dei “respingimenti assistiti” e i flussi cesserebbero: nessuno sarebbe così folle di investire migliaia di dollari e rischiare la vita con la certezza di non arrivare mai in Europa.

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