Il 2018 e l’innovazione digitale

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Oggi, due gennaio, è il giorno giusto per parlare di futuro, quindi di innovazione. Dopo la parentesi operaia, ho passato anni nell’ufficio progettazione motori diesel della Fiat, all’epoca tra le prime cinque al mondo, ovunque abbia lavorato, l’innovazione ha sempre fatto parte del mio bagaglio culturale e professionale, la Fiat usava i robot già negli anni Ottanta. Non parliamo dell’innovazione nei processi  manageriali e nello studio delle leadership, che è  tuttora mio interesse primario.

Dell’innovazione digitale (figuriamoci quella biologica) invece, tecnicamente, non so nulla, riesco solo a capirne le applicazioni e ne studio gli impatti sulla nostra vita sociale. Ho scelto quindi di spostarmi al secondo livello di comprensione, quello degli studiosi che riflettono sulle implicazioni sociali dell’innovazione digitale. Sono partito, tanti anni fa, da Richard Florida, il massimo studioso della “classe creativa”. Sono quelli che producono contenuti attraverso la manipolazione dell’informazione e di quei processi di gentrification (trasformare in termini urbanistici e socio culturali un quartiere, da popolare a signorile) che ne erano alla base. Ma l’esperimento pare stia fallendo, lo ammette Florida stesso.

Interessanti i teorici marxisti dell’accelerazionismo, Nick Srnicek e Alex Williams, nel libro “Inventing The Future” hanno proposto il “comunismo del lusso”. Si tratta, in soldoni, di accelerare l’automazione fino al parossismo, tutti i lavori devono essere automatizzati in modo da certificare la fine del lavoro umano, ottenendo così una redistribuzione della ricchezza su assolute basi egualitarie. Tutti avranno il “reddito di esistenza”. Dall’Inferno il vecchio Stalin sorriderà pensando ai suoi amati gulag.

Infine il recente “Tecnologie radicali” (Einaudi) ove l’autore Adam Greenfield assegna alle tecnologie digitali una centralità nella riorganizzazione delle forme di vita umana. Era un libro di cui sentivo il bisogno, specie della definizione di “capitalismo post umano” (il mio vecchio caro ceo capitalism non ne esce così male). Lui ritiene che si sia vicini al predominio del virtuale, cioè un mondo dove donne e uomini (il genere è finalmente irrilevante) sono trasformati in “mucchi di dati”, pronti per essere elaborati da imprese monopoliste per massimizzare i loro profitti e permettere agli Stati di esercitare il massimo del controllo sociale. In italiano si direbbe: una vita colonizzata fascio-comunista.

Mi parevano concetti che avevo già letto tanti, tanti anni fa. Ho scoperto l’arcano, sensazione vera, erano su “Hitler, una biografia”, 1.100 pagine di Joachim Fest del 1973, pensa te. Chissà come se la riderà il vecchio Adolf, anche lui nell’ultimo dei gironi dell’Inferno, felice di incontrare presto (per noi sarà sempre troppo tardi) queste felpe californiane così intelligenti e determinate, che stanno realizzando quello che lui aveva solo sognato. E’ incredibile che costoro lo facciano alla luce del sole, anzi gli Stati, invece di metterli in galera, li stima, li premia, permette loro ogni devianza.

Eppure la soluzione democratica, umana, sarebbe lì, a portata di mano, affermare che al centro della politica, dell’economia, dell’innovazione ci dev’essere sempre e comunque l’uomo., le tecnologie sono sue ancelle. Di colpo, questi mostriciattoli raggiungerebbero il loro Fuhrer e il loro Stalin.

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