Nel 2030 i robot sostituiranno il 40% dei lavoratori. E se fosse una bufala?

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Da cinque anni a questa parte ogni tanto compare uno studio sull’invasione dei robot ammazza lavoratori. Anche quest’anno “è arrivato l’arrotino”, è toccato a una società di consulenza dal nome chilometrico, Pricewaterhousecooper (Pwc). Non me ne voglia Pwc, ma ho il sospetto che il report sia sempre lo stesso, o meglio i dati siano sempre quelli: i robot sostituiranno il 40% degli attuali lavoratori. Questa la sentenza. Cambia solo la tempistica dell’implementazione: cinque anni fa l’asticella era stata messa al 2040, poi scese, scese, ora viene collocata al 2030. Il suggerimento che mi permetto di dare ai futurologi (scienza, medicina, industria, climatologia, poco importa), è di fissare le minacce a una data tale per cui tutti quelli coinvolti siano già morti. Altrimenti si ripete l’incredibile bufala dell’Ipcc e di Al Gore: avevano giurato che entro il 2035 i ghiacciai himalaiani si sarebbero sciolti, con il Gange fattosi rigagnolo: ebbero il Nobel. Se avessero sparato 2085 era fatta.
Quando si dice robot si intendono sia quelli fisici, che ben conosciamo da trent’anni (ricordo che Vittorio Ghidella, il padre dell’automazione in Fiat, mi raccontava del dubbio se mettere o meno le lampadine elettriche in una officina dello stabilimento motori di Termoli, stante l’automazione totale: nel turno notturno non c’era più nessun umano) ma pure quelli della cosiddetta intelligenza artificiale, dei software, degli algoritmi.

Ripeto, nessuna novità, i numeri sono sempre gli stessi, i lavori più a rischio pure, quelli a basso livello di scolarità, così i settori colpiti (ospitalità, servizi alimentari, stoccaggio, trasporti). Una piccola notazione, mentre usciva questo report, Uber dichiarava di abbandonare la sperimentazione delle sue auto senza conducente, dopo l’ennesimo incidente a Tempe (Arizona). Bene ha fatto, mi paiono soldi buttati, fino a quando non verrà chiarito, se in caso di incidente (mortale) deve andare in galera il padrone dell’auto o il venditore dell’algoritmo o nessuno (per privilegiare il business: soluzione più probabile).

In questi giorni un personaggio del mondo sindacale italiano mi ha interpellato sui pericoli della globalizzazione e della robotizzazione del lavoro (e relativa proposta di Bill Gates di tassare i robot). Risposta facile: la globalizzazione selvaggia non è una minaccia, è “la minaccia”, mentre la robotizzazione è un’opportunità. Come diceva Falcone, che conosceva le organizzazioni mafiose (tali sono in genere le multinazionali), bisogna sempre seguire il denaro, e si arriva alla soluzione del problema. Non vale per la tecnica, per le tecnologie. Quella di Bill Gates è una proposta da non prendere neppure in considerazione, è intellettualmente sconcia, come tutto ciò che proviene da Silicon Valley. Queste proiezioni, puramente cervellotiche (il segretario al Tesoro di Trump, Steven Mnuchin, ex Goldman, dice: “Sono fenomeni così lontani nel tempo, 50-100 anni, da essere fuori dai miei radar”), non hanno altra spiegazione razionale se non quella di un terrorismo comunicazionale, al solo scopo di creare preoccupazione nei lavoratori, per gestirli meglio e pagarli meno. Non avendo prove, mi vergogno a scrivere questo, ma non trovo altra spiegazione razionale. D’altra parte, le prove sulle bufale della scomparsa dei ghiacciai himalaiani studiate a tavolino vennero fuori anni dopo ed erano legate al raccattare finanziamenti per studi e carriere accademiche inutili. Gli obiettivi delle élite sono sempre miserabili.

La robotizzazione è un banale problema manageriale di costi-benefici da analizzare, caso per caso a livello aziendale, diverso sarebbe a livello sociale, se e quando gli Stati dovessero perseguire l’adozione di politiche industriali, fiscali, economiche basate su un bilanciamento ottimale di sistema: costi-benefici per ogni singolo fenomeno. Ripeto ciò che scrivo da anni, vorrei che le nostre élite ragionassero solo in termini di execution, il mondo sarebbe molto più semplice, le tensioni sociali molto minori.

Riccardo Ruggeri

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