Carlo Cottarelli gode in Italia di una considerazione molto alta, curiosamente non tanto per ciò che ha fatto, ma per come fu allontanato, prima che potesse fare quello per il quale era stato chiamato. Era un direttore del Fmi, Enrico Letta lo chiamò, Matteo Renzi lo licenziò (Carlo, uomo di grande eleganza, a domanda specifica, ha spiegato che fu lui a dimettersi, chissà se in sala gli hanno creduto). I risultati si sono visti, nel triennio renziano, stante lo scenario internazionale (irripetibile la congiuntura favorevole dollaro-petrolio-tassi-Q.E.) il debito, anziché diminuire, è aumentato di 120 miliardi (sic!). Per un paese come il nostro il governo del debito avrebbe dovuto essere la priorità assoluta e la spending review l’attrezzo da portare sempre con sé, per tagliare l’inutile. E’ avvenuto l’opposto: il “macigno” si è allargato.
Premetto che Carlo è un amico, ci uniscono molte cose, tra cui il tifo verso due squadre, l’Inter e il Toro, che è impossibile non amare per la sfiga di cui sono portatrici. La presentazione del suo ultimo libro (Il Macigno, Feltrinelli, 15 €) è avvenuto in una delle zone della periferia di Torino che mi sono, emotivamente, più care. Siamo al confine fra i quartieri Santa Rita e Mirafiori, qua negli anni Sessanta era aperta campagna, con rare cascine (quella in cui c’è stata la presentazione, la Cascina Roccafranca, riattata a centro socio culturale di quartiere). Dopo la sua brillante presentazione, il pubblico si è scaldato, ed è arrivato il momento delle domande. Occasione per me rara: ascoltare i miei giovani colleghi di allora, della generazione dei baby boomers operai, entrati diciottenni in Fiat, nella seconda metà dei Sessanta, andati poi ad abitare in palazzoni costruiti sui terreni agricoli di cui alla cascina riattata. In quei luoghi si è compiuta la loro traiettoria umana e politica, dal mitico Pci, all’imbarazzante trio Lescano (Ciampi, Amato, Draghi), alla eiaculazione precoce (europea) di Prodi, al berlusconismo, al renzismo. E poi? Turandosi il naso, hanno votato compatti Cinquestelle e Lega, le uniche opzioni, non tanto propositive, quanto utili per liberarsi di un establishment locale fallimentare (Pci-Fiat-San Paolo).
Il Macigno è un gran libro, di un rigore intellettuale assoluto, si capisce che il debito pubblico italiano ha ormai superato tutti i limiti ammissibili, ma Cottarelli lo vive, non solo da studioso, ma da innamorato dell’Italia. Ha analizzato a fondo le possibili soluzioni. Indica quattro “scorciatoie”: a) la ristrutturazione del debito (alias bancarotta); b) l’uscita dell’euro e il rimborso del debito, potenzialmente stampando nuove lire; c) la mutualizzazione del debito tra i paesi dell’area euro; d) il rimborso del debito con entrate da privatizzazione. Ognuna di queste ha positività e negatività, però sono sentieri o troppo costosi o non risolutivi. Una strada maestra c’è, ed è quella di congelare la spesa, risparmiare le entrate che derivano da quel po’ di crescita che abbiamo fino al pareggio di bilancio. A pareggio raggiunto, il debito non cresce più e, come tendenza, si riduce in rapporto al Pil.
Che Cottarelli sia un grande economista è un’ovvietà, ma è lo spessore umano che lo rende diverso. Partito da una solida dottrina, filtrata attraverso il lavoro ventennale al Fmi, non è di quelli che si limitano a ripetere fruste formulette, ormai insopportabili ai più, no, la sua vision è rotonda, matura.
Il momento clou della serata è stato quando si è pronunciata la parola “globalizzazione”. Forse nessuno dei presenti avrà letto Robert Gordon, ma mai potrà credere che il colpevole della crisi drammatica nella quale sono stati gettati sia la tecnologia (con le “isole robotizzate” ci hanno convissuto negli anni ’80, quando economisti saputelli o politici inetti andavano ancora all’asilo e ora pontificano sul nulla). Che la minaccia prevalente venga dalla globalizzazione loro lo percepiscono animalescamente, conoscono la teoria elementare dei vasi comunicanti, con l’establishment a mò di sughero galleggiante.
Cottarelli ci ha anticipato che questo tema, qua già accennato, lo tratterà nel suo prossimo libro. Il Macigno è propedeutico a quello, leggetelo.
Riccardo Ruggeri