L’unico partito sopravvissuto a Mani Pulite sta per spirare. Formalmente non ancora, i suoi leader sono nella fase (ridicola) di passarsi il cerino acceso. Mi ricordano il grottesco accanimento terapeutico praticato su Francisco Franco, compresa un’ipotermia mantenuta a 33°, per ritardarne la morte, solo per dare tempo al suo cerchio magico di negoziare con il Re gli ultimi privilegi. Chissà se i militanti del Pd, sopportando con dignità questa lunga agonia, diranno come Franco: “Qué duro es esto”.
In realtà, il partito era già nato morto (copyright di Massimo Cacciari), ucciso nella culla dai suoi creatori nel momento stesso in cui l’avevano estratto dallo stampo di una fusione fredda fra due organismi frusti e frustrati: la sinistra Dc e il “nocciolo molle” del vecchio Pci (i “miglioristi” alla Napolitano, belle statuitine che Togliatti si teneva sulla mensola, spolverandole spesso).
Provo tenerezza solo per i giovani Andrea Orlando e Roberto Speranza, convinti che il Congresso sia ancora il luogo ove ognuno può esprimere la propria visione del mondo, soggiacendo poi, felice, alla sintesi del Migliore. Mi metto nei loro panni, erano certi di essere in un partito, si sono ritrovati in un consiglio d’amministrazione, dove: “si prende atto e si vota” (per questo sei nominato da colui che dovresti controllare, il ceo). Non avevano capito che da tempo Matteo Renzi era entrato nel mondo del business: cos’è il partito della Nazione se non una Holding capogruppo? Tre anni fa non aveva vinto un congresso, aveva “scalato” un’azienda.
Quando la Borsa (i cittadini) nella seduta del 4 dicembre 2016 ha bocciato il suo fallimentare business plan, ha finto di dimettersi, in realtà ha deciso di cambiare governance. buttare fuori gli azionisti di minoranza, che erano poi quelli che l’azienda l’avevano fondata. Ha fatto sul Pd la stessa operazione che Carl Icahn fece negli anni ’80 su alcune aziende, sottrarle alle proprietà con la tecnica del leveraged byout. Operazione ineccepibile la sua: la minoranza dem era incompatibile con il disegno di un uomo solo al comando, perché tale è un ceo (significa “capo dell’ufficio esecutivo”, non primus inter pares). Si capiva che aveva fretta di farlo, e lo ha esplicitato, con la cattiveria tipica dei bambini viziati, come sono in genere, appunto, i ceo.
Un mondo, questo dei board, nel quale ho passato parte della mia vita, ne conosco le logiche, le dinamiche, le divertenti futilità e le infinite nefandezze, i buffoneschi verbali simil bugiardini, eppure domenica ne ho sofferto, in certi passaggi mi sono commosso, persino io, pur lontano, culturalmente, anni luce da costoro. La fine del Pd è un fatto che ci riguarda tutti, un pezzo della storia d’Italia se ne va (oltre tutto lo fa senza dignità, a volte con volgarità), per me è stato come l’assassinio della Fiat o dell’Olivetti, da parte della stessa gang che qui, dietro le quinte, so esserci. E’ curioso, la fine del Pd la vivo come una sconfitta, eppure io non c’entro nulla con loro, anzi dovrei esultare.
Ora Renzi formalizzerà la governance di questo ircocervo, metà partito personale, metà ditta individuale, i politici rimasti saranno tutti confinati nell’Ufficio Studi. Chissà se sceglierà come modello organizzativo quello dei “portavoce”, idea geniale di Gianroberto Casaleggio, però di non facile implementazione. Certo, il Pd di Renzi non è autonomo dal punto di vista dei quattrini, a differenza del Berlusconi ’94, lui non ha un patrimonio personale, non ha media suoi, il Giglio magico costa più di quanto renda, la scissione sarà economicamente un danno: entrate ridotte, costi fissi non comprimibili. Allora, per sopravvivere dovrà far riferimento all’establishment, in particolare alla sua frazione più fastidiosa, quella intellettual-mediatica-salottiera. Ne vedremo delle belle.
Riccardo Ruggeri