Da gufo mi hanno trasformato in populista. E ora mi fanno passare per nuovo untore

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A ogni fine anno aggiorno la mia agenda, mi tocca purtroppo cancellare nomi di amici che mi hanno lasciato (è terribile premere il tasto “cancella”). Quest’anno ho colto l’occasione della sgradevole incombenza, oggi di moda, per provare a dividere i miei amici (se lo vogliono hanno l’opportunità di leggere in anteprima questi Camei)) fra quelli configurabili come “populisti” secondo il protocollo dispregiativo di quelli che “populisti” pensano di non essere. Ho subito abbandonato questo tentativo, in base a un’ovvia considerazione: conoscendoli bene è impossibile che qualcuno di loro possa definire altri esseri umani “populisti”, nell’accezione orrenda che il termine ha ora assunto di “nuovi untori”. I miei amici possono essere (e lo sono) di estrema sinistra, di estrema destra, liberal-progressisti, liberal-conservatori, renziani, leghisti, pentastellati, ma sono persone perbene, e autentiche. Uno che dà dell’untore a un suo simile (per motivi politici o economici poco importa) non può che essere, a sua volta, un untore, con una differenza; se lui ha il potere di dirlo, e l’altro no, lui è pure spregevole.
Tre anni fa comparve, improvvisamente, un tale che aveva il vezzo di chiamare “gufi” (nella stessa accezione) chi si rifiutava di credere che obiettivi scritti su delle slide, per il solo fatto di essere state elaborate da lui, si trasformassero in risultati. Chiunque abbia diretto, non dico un governo o una multinazionale, ma un negozio di ferramenta (attenti, mestiere molto difficile), sa che fra l’obiettivo dato e il risultato conseguito non c’è alcun automatismo, c’è tanto lavoro, una certa fortuna, sopra tutto c’è la vita.

Questi untori (doc), per perseguire le loro ricettine, imparate sui libri, stanno distruggendo un modello basato sul lavoro e sulla sua dignità, modello che, attraverso meccanismi messi faticosamente a punto in un paio di secoli, funzionava, eccome. Io amavo chiamarlo (uso il passato perché temo l’abbiano ucciso) “ascensore sociale”, ma tante erano le sue sfumature, com’è la democrazia nella sua essenza.

La “democrazia del lavoro” (tra le forme più alte di democrazia) era riuscita a trovare un solido equilibrio fra quattro dinamiche diverse, all’apparenza incompatibili. Ricordiamole: a) il capitalismo liberale; b) la dignità del lavoro subordinato; c) il welfare (pensioni e sanità); d) il doveroso ruolo dello Stato esercitato attraverso leggi e tassazione. Questo lavoratore come cittadino ha poi tutti i suoi diritti civili e religiosi, in primis il voto; il suo voto vale quanto quello del politico o dell’imprenditore: su ciò non si transige.

Il capitalismo liberale si basa sulla meritocrazia, e tutti e tre i soggetti (politico, imprenditore, lavoratore), quando sbagliano o hanno terminato il loro ciclo vitale, devono essere espulsi dal ruolo ricoperto, così, semplicemente. Chi si rifiuta di lasciare il potere con piccole furbate, crea difficoltà al successore, impone suoi scherani, non è più un leader, punto.

Usare i media per difendere l’indifendibile è sbagliato (mi danno tristezza quelli di noi che vi si prestano). Nel momento in cui, tanti anni fa, quella che chiamano cultura liberal-riformista si è alleata con quella detta liberal-conservatrice, dando quindi origine, nei fatti, a partiti della nazione, nati con il solo scopo di mantenere un potere, sempre meno riconosciutogli dal voto popolare, ha creato offerte elettorali alternative. Come membro (laterale) dell’establishment ho considerato questa mossa un suicidio, ma se questo è il pensiero della maggioranza dei miei colleghi, mi inchino. Resta però una domanda: chi rifiuta di essere governato dal partito della nazione (unico), che deve fare? La domanda è banalmente questa. L’unico aspetto inaccettabile è dover subire l’offesa sanguinosa di populista-untore, proprio da coloro che non hanno alcun diritto morale ad arrogarsi questo potere. Le parole sono pietre. Tutto qua.

Riccardo Ruggeri

 

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