Segnali deboli: la vasca da bagno di Dien Bien Phu

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Una delle domande fisse nelle conferenze a cui partecipo è questa: “Lei parla spesso di segnali deboli, che cosa intende?”. In letteratura e sulla rete si trova una imponente documentazione, dottrinale e pratica, alla quale rimando. Uso questo strumento in modo diverso da quello della futurologa Elina Hiltunen che ufficializzò per prima la locuzione. Anche quando non avevo responsabilità gestionali, trovai sempre utile e interessante l’uso di questa tecnica. Credo di avere per questa attività una predisposizione naturale, simile a quella di certi cani bastardini langaroli nati per scoprire i tartufi. I segnali deboli sono uno strumento straordinario per capire, in tempi brevi, snodi e dinamiche delle grandi organizzazioni umane. Mi sono focalizzato sullo studio delle Classi Dominanti, sul ceo capitalism, quindi sulle loro evoluzioni nell’arco degli ultimi trent’anni.
Ho chiesto a Alberto Molinari (abbiamo lavorato insieme tanti anni fa a un progetto manageriale entusiasmante) di completare questo Cameo con un suo scritto, ove coglie, per noi del mestiere, uno straordinario segnale debole rimasto intatto, in terra d’Indocina, da quando Le “Parisien Libéré” scrisse: “7 mai 1954, 9 heures 30 du matin. Dien Bien Phu est tombé”.

 Dopo un volo di appena un’ora da Hanoi, scendiamo sulla pista del vecchio aeroporto, nella breve pianura allora occupata dalle truppe francesi sottoposte al completo controllo delle artiglierie Viet Minh del generale Giap; scendiamo nel pital, come lo chiamavano i paracadutisti francesi che, lanciati continuamente nella fornace attraverso quell’unica via di rifornimento, sapevano che non ne sarebbero più potuti uscire.
Scena di un dramma consumato? Mah, 8.000 morti da una parte, 5.000 dall’altra, mal contati… vedete voi! Io preferisco, al solito, registrare i segnali deboli che promanano da questa nostra visita al campo di battaglia: parlano da soli e vi lasciano assolutamente liberi di giungere alle vostre conclusioni.
Andiamo!  Eccolo, così com’era, il bunker, ove sta il comandante del campo trincerato: ne è da poco arrivato uno nuovo, il colonnello (verrà poi nominato generale sul campo) Christian Marie Ferdinand de la Croix de Castries. Rampollo di un’antica, nobile famiglia carica di gloria e di storia, De Castries ci sa fare sia con i cavalli, sia con i carri armati; con le donne, poi, è un’ autentica iradiddio. Così ai capisaldi ha assegnato nomi di donna; ora sì che si respira aria di Francia a Dien Bien Phu.
Dall’altra parte un esercito di contadini frugali e disciplinati: lo comanda un ex insegnante di storia passato dai libri alle armi: Vo Nguien Giap. Non ha frequentato accademie, viene dalla gavetta. Dicono che abbia letto Clausewitz e Napoleone, ma di tutti i generali vittoriosi si dice sempre che hanno letto Clausewitz e Napoleone…
Sì, però, se si considera la precisione chirurgica con la quale Giap ha condotto la sua battaglia a Dien Bien e il perseguimento costante dell’essenzialità delle sue azioni, viene spontaneo il paragone con una delle più brillanti battaglie di Napoleone, quella di Rivoli, fatta di nulla e con nulla, solo di intelligenza e rapidità di esecuzione.
I francesi si battono bene, con pochi disertori e molti morti, resistendo a cinquantasei giorni di ininterrotto assedio. E allora come mai questa sconfitta, abbastanza rapida, dopo tutto? Mah. Proseguiamo con la nostra visita. Entriamo nel bunker, costruito in cemento armato e protetto, fuori, da strutture di acciaio. Percorriamo i brevi corridoi, di tanto in tanto illuminati da leziose appliques-anni-trenta, proseguiamo sino alla stanza di comando, nuda, con un tavolo, una sedia e, qui, immaginiamo il generale Christian Marie Ferdinand de la Croix de Castries che, nell’atmosfera tesissima del dramma che si sta consumando, dà ordini imperativi al telefono: quanti uomini sono rimasti? quante munizioni?..  Beh! Questa è una scena veramente essenziale! Più essenziale di così non potrebbe essere!

 Già! Se non che ad un certo punto Christian Marie Ferdinand de la Croix de Castries si alza – c’è un caldo terribile nel bunker, un’umidità insopportabile in questa stagione monsonica stranamente anticipata – va nella stanza accanto, dove si è fatto riempire d’acqua la vasca da bagno e… finalmente… un po’ di sollievo!… Sì, credetemi, non è una mia invenzione, la vasca da bagno, di ferro smaltato con le sue brave zampe di sostegno è ancora lì, nel bunker, e dalla stessa promana quel segnale debole di cui parlavo all’inizio o, almeno, io lo colgo: è lei stessa che denuncia la sua stolta, squallida non essenzialità.

 Credetemi, dopo cinquantatré anni, tutto è morto a Dien Bien Phu… non quella vasca da bagno.

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