Caso “Taxi-Uber”: e se provassimo ad applicare i protocolli Falcone-Borsellino e Eliot Ness?

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Mi ero ripromesso di mantenere un sofferto silenzio sulla guerra tassisti-Uber-governo-élite (un tema che riguarda esclusivamente queste quattro micro categorie, al 90% dei cittadini non interessa nulla, visto che per muoversi in città usano o le loro gambe o i mezzi pubblici (i taxi servono per andare all’ospedale). Nulla da fare, tassisti da un lato, dall’altro amici dell’élite, mi hanno sollecitato (mail, sms, telefonate), a prendere posizione sulla Verità, anche se molti sanno esattamente come la penso. Su taxi-Uber ho scritto decine di Camei, proponendo addirittura soluzioni per aggiornare il modello di business.
Ai tassisti mi sento umanamente vicino, come lo ero, da adolescente, verso i pellirossa per cui tifavo, mentre disprezzavo le giubbe blu. Così nel medioevo sarei stato con le streghe, e contro i nobili che, prima abusavano di loro, le facevano passare per pazze, poi dopo averle ridotte a puttane lacere le facevano bruciare da religiosi papalini. Incomprensibile l’odio delle élite verso una categoria di poveracci: il tassista è un tale che guadagna come un operaio, però lavora dodici ore anziché otto, è un apolide del desco e del cesso. Ha investito i suoi risparmi e acceso un mutuo per comprarsi una licenza, ergo deve sottoporsi a visite mediche, rispettare orari di lavoro definiti e applicare tariffe fissate dal Comune, prendere a bordo chiunque ne faccia richiesta (se fosse un lombrosiano il sabato sera starebbe a casa). Ha pure un tassametro (piombato), così nulla sfugge al fisco. Eppure, curiosamente, le élite di ogni ordine e grado o li odiano o li disprezzano. Non ho mai capito perché. A questo punto, come non voler loro bene? Confesso che solo con alcuni tassisti di Roma ho difficoltà (mi ricordano gli scontri sindacali del ’79 in certe officine Fiat).

E Uber? Umanamente è un nobile medioevale che manda al rogo la strega-puttana. Fuor di metafora, ricordo di essere stato fra primi in Italia ad anticipare il pericolo di un modello di business (qua mi riferisco solo a Uber Pop, la versione basica, l’unica che ho studiato a fondo) che, se applicata nella sua essenza, porta alla lobbying più sfrenata, allo stravolgimento delle leggi, al dispregio delle regole della concorrenza, al dumping, infine al monopolio. Per un liberale e per un capitalista rispettoso delle leggi come me è semplicemente un nemico della libertà d’impresa, visto che impone una “tangente” preventiva (20%, sic!), fissa i prezzi, incassa gli introiti, assume e licenzia i driver, e pretende di non avere le responsabilità di tutti gli altri datori di lavoro, di ogni business presente sul mercato. Incredibile. E infatti, per esempio in Uk, i giudici li condannano, in Germania li espellono, in Spagna li autorizzano a “vendere” la loro piattaforma solo per consegnare le pizze a domicilio (sottoscrivo).

Uber, e tutta la banda dei californiani (Facebook, Google, Apple, Amazon, etc.) devono essere controllati secondo il protocollo Falcone-Borsellino (“segui l’odore dei soldi”) e il protocollo Eliot Ness, il mitico agente del Tesoro (detto l’Intoccabile), quello che mandò ad Alcatraz Al Capone per evasione fiscale.

Via via che il ceo capitalism prende piede se ne vedono i riverberi: questi gruppi diventano sempre più ricchi e arroganti, gli stati nazionali sempre più poveri e indebitati, San Francisco è la loro capitale ma ora sembra sempre più Rocinha (Rio de Janeiro), la grande favela povera che confina con il quartiere dei ricchi. Il modello prevede che allo spuntare di un nuovo miliardario digitale spuntino milioni di vegetali che campano di lavoretti. Bene ha fatto Renzi ad “andare in California per imparare”, anch’io lo faccio per imparare a non farmi fottere da costoro.

Un suggerimento tecnico agli amici conduttori di talk show che trattano il tema Taxi-Uber. Ogni partecipante risponda, a beneficio dei telespettatori a due domande preventive: a) considera l’attività dei tassisti un servizio pubblico oppure no?; b) nella sua gerarchia dei valori viene prima l’interesse del cittadino o del consumatore? Per quanto mi riguarda non discuto con quelli che dicono: buona la seconda. Mi limito a rispettarli e, se sono amici, a voler loro bene.

Riccardo Ruggeri

 

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