Finalmente pure ad Harvard si sono accorti che Uber era un modo per beffare i poveri

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Questo inizio 2017 si presenta per me foriero di soddisfazioni intellettuali: quando superi gli ottanta sei mesi ti sembrano un anno, così le soddisfazioni intellettuali ti ringiovaniscono. Mando un sms a Stefano Lorenzetto: “Che ne dici se scrivo un Cameo sul disfacimento della teoria della disruptive innovation di Clayton Christensen (è vent’anni che mi rovina la vita), e sulla crisi di Uber, ovviamente evitando l’inelegante l’avevo previsto?”. Mi risponde all’istante “Al contrario: scrivi proprio che l’avevi anticipato”. Scelgo un compromesso: dirlo in modo scanzonato con le parole di altri, ben più prestigiosi, .
Negli anni Novanta uscì un libro di Christensen The Innovator’s Dilemma, lo lessi con avidità, si poneva due domande topiche: “Perché è così difficile per un’azienda mantenere il successo?” e “L’innovazione di successo non può davvero essere prevista, così come suggeriscono i dati?” Si rispose da solo con una teoria, per oltre vent’anni tutti gli strateghi aziendali dissero di ispirarsi a lui, il suo terreno di coltura era Silicon Valley, fino all’esempio mito del modello, Uber. Questi, in cinque anni raggiunse una capitalizzazione monstre: 68 miliardi $, più di Gm e Fca insieme! Tentai una sintesi di questo mondo magico: “Inventare il nuovo distruggendo il vecchio”. Ero certo che fosse un mondo farlocco, ma non potevo dimostrarlo.

Non avendo la competenza scientifica per demolire la teoria (a me pareva il festival del luogo comune) mi concentrai sul suo figlio prediletto, Uber, sul quale molto ho studiato e scritto (se prendo un taxi spesso vengo riconosciuto: i tassisti sono l’unico spicchio di “società incivile” ove le mie idee hanno sfondato).

Dopo l’uscita dei risultati di Uber (anche i nodi di Airbnb e simili stanno arrivando al pettine), tutti i media (suoi grandi sponsor), o tacciono o si chiedono: un abbaglio? Ecco i conti della serva (modalità ancora insuperata per valutare un’azienda, sia di vecchio che di nuovo conio): da settembre 2014 a settembre 2015 ha fatturato 1,4 miliardi $ ne ha persi 2, cioè ogni 100 $ incassati ne perde 143. Nel primo semestre del 2016, pur avendo tagliato massicciamente il compenso dei driver (sic!), è riuscita a perdere 1,2 miliardi (2,5-3 su base annua?). Secondo Hubert Horan, massimo esperto di trasporti pubblici, gli utenti di Uber con questi prezzi pagano solo il 43% dei costi, cioè viaggiano a sbafo, grazie ad azionisti idioti e driver gabbati.

La mia analisi, riferita a questa genia di individui che si spacciano per supermanager (in realtà sono dei banali deal-maker, più spesso “serial manager” che lasciano dietro di loro solo morti e feriti) era banale: il loro era il vecchio giochino del dumping (prezzi-sociale) per distruggere i concorrenti fino a diventare monopolisti. La novità era l’aggirare le leggi con modalità illegali però legalizzate (lobbying) in corso d’opera, nel fornicare sulle tasse, nel confezionare geniali confetti comunicazionali per gonzi.

Finalmente la prestigiosa Mit Sloan Review demolisce definitivamente la teoria di Christensen: “le sue affermazioni sono corrette solo nel 9% dei casi”, la celebre storica Jill Lepore di Harvard “la teoria fa acqua da tutte le parti”, persino Economist, un tempo affascinato dal nuovo, è duro: “falso che siano aziende competitive visto che puntano al monopolio”; poi il K.O. “non investono, peggio, accumulano riserve in paradisi fiscali”. Come teorizzatore della linea nazional-popolare “per i nostri risparmi “meglio il materasso della banca” gongolo e ringrazio.

Diciamolo: questa teoria della disruptive innovation non solo ha gabbato noi studiosi di organizzazione aziendale e di modelli di business, beffato i media, turlupinato investitori, ma ha distrutto il tessuto sociale (welfare, regole, sindacati) del mondo del lavoro, al solo scopo di raccattare miserabili scampoli di business. Per dare lavoretti a poveracci, ha creato altrove disoccupati, favorendo le grandi aziende che hanno così potuto avvalersi di lavoratori disperati, abbassando artatamente il costo del lavoro.

Alla fine, le élite hanno sputano il rospo: “Questa ideologia, questi modelli, questi comportamenti manageriali, hanno fatto vincere Donald Trump”. L’hanno scritto lor signori, era anni che aspettavo. Grazie.

Riccardo Ruggeri

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