E’ meraviglioso per un apòta come me (noi apòti non ci fidiamo né della destra, né della sinistra, né del centro) vivere a lungo, specie se nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Se vivi a lungo e sei stato sempre stato te stesso, da “testimone” ti fai “memoria”. E’ bello. A questo punto anche i birbanti, voltagabbana strutturali di cui è ricco il mondo, sono costretti a rispettarti.
Piazza Vittorio Veneto di Torino è stata per molti anni al centro della mia vita, in parte lo è tuttora. Al civico 9, in una portineria, ci sono nato nel 1934. In quei 15 metri quadrati, con i miei nonni e genitori, ci ho passato l’infanzia e l’adolescenza. Sono stato felice, molto.
Il 14 maggio 1939, a 5 anni, mia mamma mi mise a cavalluccio, così potevo, dai portici, vedere una massa impressionante di persone che non solo riempivano la piazza (anche allora si diceva, “pressati come sardine” e Wikipedia avrebbe garantito ottant’anni dopo che la piazza può contenere fino a 100.000 persone). C’era un palco, con un signore appena arrivato da Roma, vestito di nero d’orbace che urlava, si agitava, e i centomila lo applaudivano freneticamente. C’era tanto rumore, questo il mio unico ricordo. Era la Torino fascista, diceva la mamma, noi antifascisti “schedati” eravamo quattro gatti, operai Fiat ed ebrei, il nonno era provvisoriamente in gattabuia, ci sarebbe rimasto fino alla partenza per Roma del treno del Duce. Oggi, mio nonno (voleva lo chiamassi Nonno Stalin) sarebbe un eroe. Molti di questi attuali antifascisti di ritorno dichiarano di aver avuto un nonno antifascista, chissà se sarà poi vero.
Sei anni dopo, il 2 maggio 1945, piazza Vittorio era di nuovo strapiena, c’erano gli stessi del maggio 1939, solo che in pochi mesi da fascisti erano curiosamente tutti diventati antifascisti, alcuni, indossando un paio di pantaloni di velluto e un giacca di fustagno, si dichiaravano addirittura partigiani, tutti erano ora filo angloamericani (avevano dimenticato che poco prima urlavano “Dio stramaledica gli inglesi”).
Questa volta però mia mamma era in prima fila, con me per mano: da “ex schedati” il podio stradale ci spettava. Mi scuso per l’autocitazione, ecco l’incipit del mio libro America, un romanzo gotico. “Avevo dieci anni quando incontrai l’America. La sua faccia era nera, più nera di quella degli spazzacamini. Un gigantesco sergente nero marciava in testa al suo reparto, io undicenne salutavo timido i liberatori con una bandierina americana di carta. Lui sorrise, aveva una bocca larga, enorme, mi diede una barretta di cioccolato e una carezza sulla testa”. Il sergente nero divenne il mio mito, era, e sarà sempre, il mio coraggioso “partigiano liberatore”.
Nel dopoguerra i torinesi, nel frattempo divenuti comunisti, con qualche sfrido di liberali dell’alta borghesia ex monarchica, si ritrovavano spesso in piazza Vittorio, il 1° maggio tutti nel suo grande ventre. Da apòta non partecipai mai attivamente a nessuna piazza, delle piazze mi piacevano però le atmosfere, per cui rimanevo ai suoi margini per respirarle. Ora abito in una casa di ringhiera adiacente a piazza Castello, qualche centinaio di metri da dove sono nato, e mi ritrovo un’altra piazza (Castello), altri palchi, altri oratori, che urlano e si agitano. E’ cambiato solo il look, non più il nero d’orbace, o le tute blu del dopoguerra, ma i colori borghesi dell’arcobaleno, tipici del Ceo capitalism. Si danno nomi curiosi, per esempio, “popolo viola”, “girotondini”, a volte “madamin”, ora “acciughe”. Non ho mai capito, come ovvio per mie carenze culturali tipiche dell’apòta, chi sono, cosa vogliono, dove sono diretti. Però, lo confesso, li trovo tutti carini.
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