Libero “barachin” in libera scuola

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Il 2016 per Torino è stato un anno straordinario. Ne sono passati 48 da quel imbarazzante 1968, che a Torino ebbe una risposta al contempo sconcia e raffinata, la nascita nelle penombre sabaude di una jointventure politico-economica Pci-Fiat-Banca San Paolo (una specie di troika d’antan). Questi seppero inventarsi un meccanismo oliatissimo per spartirsi il potere cittadino. Per quasi dieci lustri sopravvisse a tutto. Nessuno meglio di loro avrebbe potuto liquidare con maggior destrezza il mondo Fiat, avevamo un mito, pochi anni di partite a scopa e ci siamo ritrovati un cimitero (persino le lapidi ci hanno sottratto), convincendo i torinesi che così sarebbe diventata una città della cultura (Alessandria d’Egitto?). D’altro canto, quelli della troika sabauda sono da sempre maghi del gioco delle tre carte, boss di quelli stazionanti all’angolo fra piazza Carlo Felice e corso Vittorio Emanuele II.
Finalmente, nel giugno scorso il “Sistema Torino” è saltato. Piero Fassino e soci, rifiutati dalle periferie e abbracciati dai salotti, vengono sostituiti dai pentastellati in Sala Rossa, Chiara Appendino arriva in Municipio. Persino io, liberale semplice, che non votavo da tempo, mi sono recato al seggio di via Sant’Ottavio (stesse aule ove 70 anni prima avevo fatto le medie). Stante questo orrendo sistema elettorale, per liberarmi di Piero Fassino e del Sistema Torino ho dovuto votare Chiara Appendino, di lei sapevo solo che era bocconiana e controller della Juve, non granché.
Nella mia Torino, è avvenuto un fatto importante, nel linguaggio giornalistico l’ho tradotto così: “libero barachin in libera scuola”. Di che si tratta? Da anni, un gruppo di 58 genitori torinesi, primi in Italia, lotta contro Sindaco, Regione, Ministero, Governo, vogliono dare ai propri figli il tipo di pasto di mezzogiorno che reputano più opportuno. In che modo? Attraverso il “barachin”, oggetto straordinario che si identifica con la storia operaia di Torino e del ‘900. Il barachin per me è uno scrigno di libertà personali. Quest’anno c’è stata a Palazzo Lascaris, la mostra “Fame di lavoro. Storie di gastronomia operaia”. Mostra benvenuta in un mondo politico-culturale che non vuole più bene a chi lavora, agli operai, ai contadini, alle partite iva. Il barachin che mi portavo ogni mattina a Mirafiori, per farlo scaldare a bagnomaria, rappresentava, con le lise tute blu ereditate da papà e dal nonno, la mia identità. Mia mamma si alzava all’alba per preparare i rispettivi barachin, contenevano le stesse cose, ma nella mia pasta c’era più burro, più formaggio, più amore.
Ora a Torino, 58 belle famiglie vogliono che i propri figli piccoli mangino i cibi della loro infanzia, cucinati da loro. Per ottenere un diritto elementare come questo, devono ricorrere a un giudice. La Corte d’Appello ha dato loro ragione, tutto l’establishment politico-burocratico del vecchio Sistema Torino si è opposto e ricorrerà (che individui miserabili). Ci sarebbero stati quelli che avrebbero mangiato il cibo comunale, altri quello di casa, i bambini avrebbero curiosato nei piatti e nei barachin degli altri, sorrisi, lazzi, battute: un tempo la chiamavamo cultura. Nulla da fare i burocrati politicizzati hanno il sopravvento sulle persone perbene. I 58 genitori avevano semplicemente rifiutato la standardizzazione del cibo figlia della standardizzazione dei prodotti alimentari (e non c’è ancora il Ttip!), con sapori globalizzati, logistica standard, costi standard, un modello per le mense carcerarie. I 58 torinesi si sono opposti, brandendo come arma di libertà i loro barachin. Che bello se i 58 avessero sfilato, sorridendo, per le strade di Torino scandendo ba-ra-chin, ba-ra-chin, e, come il corteo del 14 ottobre 1980, via via ingrossasse fino a raggiungere il mitico numero di 40.000 (mia mamma, operaia Fiat in pensione, allora settantenne, sfilò). “Libero barachin in libera scuola”, persino il massone Cavour l’avrebbe sottoscritto.

www.riccardoruggeri.eu

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