Domanda. È un po’ di tempo che non parli di Matteo Renzi, che ti succede? Stai perdendo la tua ostentata indipendenza?
Risposta. Tranquillo, in questo mi dichiaro nicciano, sono al di là del bene e del male. Ti confesso che stavo per scrivere un Cameo sul rapporto Sole 24 Ore-Oscar Giannino, stante che su Twitter si era sparsa la voce che l’editore avesse trombato il giornalista per compiacere un non meglio identificato “potere”. Hanno creato un hashtag #nontoccategiannino, la rete è insorta, io mi sono limitato a un tweet di servizio, di taglio surreale: “Per ripicca esco da Confindustria e non sto più al Sole”.
D. Che cosa volevi scrivere?
R. Non sapendo nulla, sul fatto specifico nulla. Il gossip politico-editorial-manageriale non è nelle mie corde, avrei parlato del tema censura nella mia epoca eroica, gli anni ’70-’90, quelli da bere e poi da sorseggiare, di vita vissuta. Citando due personaggi mito: Giulio Andreotti, un vero leader che, si diceva, mai chiese la testa di un giornalista, e di Sandro Pertini, un curioso capetto partigiano, sopravvalutato al punto da farne un presidente della Repubblica, che, si diceva, tagli di teste ne chiedeva e ne otteneva, come ovvio, da miserabili editori e direttori. Da anni Il Sole non fa più parte della mia ricca mazzetta di giornali, per cui ho preso atto, senza stupore, che pare essersi rimangiato la decisione censoria.
D. Bene, torniamo a Matteo Renzi.
R. Ti confesso che, da quando Matteo Renzi ha perso la sintonizzazione con il popolo (“the general feeling” direbbero i colti), a me è diventato più simpatico. Appena fu eletto, avevo riposto in lui grandi aspettative; furono subito bruciate, sia in termini di comunicazione, che analizzando i suoi primi atti. Quella conferenza stampa, detta delle slide, fu quanto di più suicida si potesse concepire per un politico (persino per un manager). Lì capii che non aveva un “cerchio magico” di professionisti intorno a lui, nessun amico vero. Quella conferenza stampa, tutta farina del suo sacco, gli portò sì il 40% dei voti alle “europee” ma lo affossò per sempre come credibilità. In quattro slide sparò tutte le cartucce che aveva in berta, trasformando la politica in un una festa patronale, con tanto di fuochi d’artificio. Solo un entusiasta totalmente digiuno del rapporto problemi/soluzioni o un imbarazzante cacciaballe poteva, a reti unificate, far credere al popolo (a meno di considerarlo bue) che con cadenza mensile (sic!) avrebbe risolto i problemi atavici dell’ Consiglio di rileggere oggi quelle slide e le assunzioni che ne sono alla base, così come i ragionamenti che le supportano. A due anni di distanza, sono agghiaccianti, direbbe il nostro mito, Antonio Conte.
D. Sulla comunicazione d’accordo, ma sugli atti che hai da dire?
R. Primo, quando si va al potere, in qualsiasi organizzazione umana, si fa una due diligence dello stato dell’arte e la si comunica al popolo (o all’azionista), con onestà e chiarezza, dopodiché dei predecessori non si parla mai più, se non positivamente. Stucchevole ripetere in continuazione che il mondo è cominciato il 22 febbraio 2014, perché è falso; oltretutto alcune cose venute dopo, come naturale, solo state oggettivamente negative. Secondo, Renzi sconta un errore capitale, di cui sono certo neppure si sia accorto: la messa al macero del progetto di spending review di Carlo Cottarelli, l’uomo che, su forti pressioni di Enrico Letta, lasciò il Fmi, accontentandosi di uno stipendio ridicolo (un terzo in meno), pur di dare un contributo al suo Paese di origine. Per sottolinearne l’etica e la professionalità, si dice che Cottarelli chiese a Letta, come si fa nei Paesi seri, che i risparmi (almeno 20 miliardi l’anno) andassero ad abbattere il debito, e non in spesa corrente.
D. Questo fatto come fu vissuto dal mercato?
R. Dal mercato vero o da quello raccontato a Renzi da finanzieri d’assalto o deal maker da talk show? Nella forma, con grande freddezza; nella sostanza, malissimo. Ricordo una lucida analisi fatta il giorno dopo da un amico svizzero, banchiere, che cambiò immediatamente il giudizio su Renzi. Aveva subito capito che il premier non avrebbe lavorato sull’efficienza-efficacia della macchina pubblica, ma a velleitari progetti di crescita “a debito” (per averne contezza, basta calcolare il differenziale fra il debito al 22 febbraio 2014 e quello di oggi). Inutile colpevolizzare speculatori che non esistono.
D. Questa non te la passo, gli speculatori ci sono, eccome.
R. “Specula” era la vedetta della guarnigione romana che guardava lontano, intuendo che cosa sarebbe potuto accadere. Applicato ai mercati, gli “specula” sono chiamati per dare un prezzo alle cose, compresi i debiti degli Stati. Quelli che hanno la capacità di comprendere in anticipo problemi complessi, sono dei “giocatori” che puntano il loro denaro (ripeto, il loro) per comprare o vendere un bene, rischiando i propri quattrini: per ognuno che guadagna, c’è un altro che perde. Puoi chiamarli giocatori o anche locuste, ma meritano rispetto, sia loro che il tavolo da “gioco” (il mercato), ma non considerarli un nemico. Il mercato è fatto di avversari, amici e nemici non esistono. Così va il mondo, caro Riccardo.
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