Letterina di Natale ai miei amici potenti che non vedono la fine del nostro mondo

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Cari amici dell’establishment, tempo fa decisi di scrivervi, a cuore aperto, una lettera. Per renderla pubblica ho però atteso il referendum e le varie interpretazioni del risultato. Avete notato? In maggioranza, noi dell’establishment ci eravamo schierati per un Sì (sfrontato) e ha vinto un No (ragionato). Ormai, sbagliamo spesso. Dei consumatori sappiamo tutto, dei cittadini nulla. Appena entrano in cabina, bocciano i podestà che noi scegliamo per governarli. Forse una doverosa autocritica sui nostri ormai ventennali errori si imporrebbe. Perché difendiamo un modello ormai stracco? Perché puntiamo su impresentabili?

Ci conosciamo da una vita, molti di voi fanno parte dell’establishment da generazioni, altri, come me, da una trentina d’anni. Di me sapete tutto, fino ai 40 anni le mie camicie avevano il colletto prima blu, poi bianco sporco. Nei successivi 40 anni sono stato uno di voi, le mie mise si sono via raffinate, senza riuscire ad arrivare al mito, l’immortale abito nero, camicia bianca, collo aperto alla Bernard-Henri Lévy, del grande Charvet (dal 1838 in Place Vendôme). Look difficile, a cui mai arriverò; essere fuffa e al contempo eleganti, senza disprezzarsi, è arte di pochi.

I vostri avi del Settecento ebbero un’idea geniale per andare al potere, e poi mantenerlo: aggiunsero un’astuta «rondella», a mò di distanziatore, fra le classi dei ricchi e dei poveri, chiamandola «classe media». Per quelli come me fu una grande opportunità, i più vivaci riuscirono a diventare «rondella» e puntarono, avidi, a essere élite. Il mezzo si chiamava ascensore sociale (un nome bellissimo).

Anch’io, con pochi altri, ce la feci, voi mi accoglieste con amicizia, ve ne sono grato. A fine corsa, ricco di un’esperienza di un mondo ormai a voi lontano (perché state chiusi nei vostri salotti, board, «cortine»?), voglio darvi qualche consiglio, non richiesto, ma dovuto.

Anni fa la maggioranza di noi establishment, vecchi e nuovi, decidemmo un cambiamento radicale: la globalizzazione. Ci sembrava un’ideona, semplice e geniale: arricchirci tutti, a saldo zero. Fingemmo di non sapere che i nostri avi l’avevano già tentata a inizio Novecento: era finita male, con la guerra.

Poi l’Europa. Entrarci significava «lavorare un giorno in meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più». Ricordate? Lo disse uno dei migliori di noi, in realtà era una bufala. Figuriamoci cosa sarebbe successo con la globalizzazione, c’erano grandi numeri in gioco. Un miliardo di individui, soprattutto orientali, sarebbero usciti dalla povertà (l’avremmo usato come fiore all’occhiello); l’altro miliardo, quelli occidentali, avrebbero migliorato la loro situazione. Così fu venduta alle plebi occidentali, ricordate? «Vaste programme» avrebbe detto il generale de Gaulle. Da vecchio apòta, più modestamente mi chiesi, ottusamente: dov’è il trucco?

Il trucco c’era, eccome, lo scoprimmo qualche anno dopo, ma vigliaccamente non abbiamo ancora avuto il coraggio di ammetterlo. Il primo miliardo di riffa o di raffa qualcosa mise in berta (le «nostre» statistiche, predisposte ad hoc, lo esaltarono); l’altro miliardo di persone perse molto: posti di lavoro, reddito, patrimonio. Le «nostre» statistiche lo nascosero, manipolammo i dati; per esempio, bastava lavorare un paio d’ore alla settimana o comprare un voucher, et voilà, si entrava nella statistica degli occupati, senza esserlo. Dichiariamo un tizio «sfiduciato», et voilà, cessa di essere disoccupato. Banale gioco delle tre carte.

Ci fu un solo risultato incontrovertibile: un gruppo infinitesimale di noi dell’establishment divenne mostruosamente ricco, a spese di tutti gli altri. Il vecchio modello delle tre classi (dominante-media-povera) si è via via degradato. Ora si è riconfigurato così: un super establishment (0,1% della popolazione), un establishment maggiordomo del primo (amici, questi siamo noi, un 10%). Il rimanente 90% è una massa informe di ex classe media impoverita e di classe povera disperata, insomma, colletti blu o bianco sporco. Tutti furibondi con noi.

Come sapete, alcuni (mi metto fra questi) lo ripetevano da tempo: attenti, il giochino sta saltando, molti cittadini vengono trasformati in miserabili consumatori a basso reddito, la gig economy (quelli dei lavoretti) trasforma il lavoro (l’unico aspetto, con la religione, che dia dignità alla nostra vita) in una commodity, di qui l’«uberizzazione» della società. L’ascensore sociale non solo l’abbiamo bloccato ma, appunto con l’«uberizzazione», lo stiamo ridicolizzando, il destino del 90% pare segnato: non più cittadini lavoratori ma miserabili consumatori-connessi, con una sola opzione tendenziale: diventare zombie.

Come potete pensare che questi pre-zombie non abbiano reazioni? Al loro posto noi cosa avremmo fatto? Credere a questi podestà che governano per conto nostro? Impossibile. Così è arrivata la Brexit, logicamente non poteva che essere la prima democrazia del mondo a rifiutare modello e leader. Poi Donald Trump. I miliardari buzzurri avevano capito quello che i miliardari liberal-chic avevano sottovalutato: con lo spariglio presero il potere.

E noi establishment europeo come reagiamo? Ce la prendiamo con i cittadini votanti, li insultiamo considerandoli «ignoranti, bianchi, vecchi, giovani scemi». Cosa non ha funzionato in questa messa cantata dietro la quale ci siamo nascosti? Ce lo dice uno di noi (il professor Dani Rodrick, sacerdote a Harvard): «L’errore è stato puntare, in contemporanea, a tre obiettivi: a) il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione; b) la democrazia politica; c) l’iper globalizzazione». Rodrick suggerisce che bisogna rinunciare almeno a uno dei tre. Ha ragione.

Cari amici, il processo sarà irreversibile, a ogni elezione i G7 verranno abbattuti come birilli: David Cameron, Hillary Clinton (e l’inetto Barack Obama che gli reggeva il sacco), Matteo Renzi, domani François Hollande (il più dignitoso). Lo confesso, non vi capisco, piuttosto che perdere tutto, non sarebbe meglio fare alcuni passi indietro? Per esempio, ricentrare l’economia sul lavoro nostrano («prima i nostri» dice la liberale Svizzera), raffreddare il processo di globalizzazione, riprogrammare l’integrazione europea, affrontare il problema dei migranti (sì ai rifugiati con un corridoio umanitario, no a quelli economici se non c’è un lavoro e un’abitazione da dargli).

Capite il dramma in cui siamo immersi? Questo mondo non piace più a nessuno, però non vediamo alternative, ci siamo forse convinti che esso non può cambiare? Se così fosse, come liberale non posso accettarlo.

Un piccolo atto io l’ho fatto: per Natale ho esiliato in cantina il ridicolo Babbo Natale, al centro del soggiorno ho messo il caro vecchio presepe della mia adolescenza. Abbiate una felice Natività.

Riccardo Ruggeri

 

 

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