La struttura del futuro governo americano rappresenta, in filigrana, il profilo esatto di Donald Trump. Mentre quello di Barack Obama era un mix sofisticato di ministri, curiosi personaggi impregnati di un elegante multiculturalismo, questa è una squadra concepita per smontare la politica dem dell’ultimo quarto di secolo. Sempre un governo dell’establishment, ma di tipo classico, quello basato sull’industria e sulle energie convenzionali, focalizzata sul lavoro. Insomma meno interesse su finanza e piattaforme informatiche a bassa occupazione e più sui business convenzionali a maggiore occupazione.La gestione di Obama del “triangolo della Bermuda” (Cina, Russia, America) si è basata su una difesa di un ordine mondiale centrato su America e Cina, con la Russia relegata nel ruolo di paggetto. Donald Trump ha rovesciato il tavolo: punta a una fase di “disordine mondiale”, a braccetto con la Russia di Putin, e la Cina tenuta a debita distanza.
I ministri di Trump sono tutti bianchi, maschi (poche donne), di età matura, di destra, con un solo repubblicano doc (il vice presidente Mike Pence), ricchi per meriti propri (sommando i loro patrimoni, questi sono pari al Pil di paesi in fondo alla classifica). Provo a scorrere i loro profili, lo faccio con il taglio occhiuto tipico dell’establishment liberal, quello della grande stampa, che li osserva con occhi carichi di disprezzo, enfatizzando solo le loro negatività.
Cominciamo dal Vice Mike Pence: è contrario all’uguaglianza dei diritti per gay e lesbiche. Il Segretario di Stato, Rex Tillerson, già Ceo di Exxon, è amico personale di Vladimir Putin. Il ministro del Tesoro, Steven Mnuchin, già produttore di Hollywood, è diventato miliardario come immobiliarista, è un ex Goldman & Sachs. Alla Sanità va un medico antiabortista, Tim Price, deciso a smantellare la contestata legge sanitaria di Obama. Andrew Puzder, proprietario di catene di fast food, accusato di violare i diritti dei lavoratori e di pubblicità sessiste, va al Lavoro. Alla Difesa un generale, James Mattis, eroe di guerra (celebre la sua battuta: “è divertente sparare a certe persone”). A lui fa da pendant, come Consigliere alla sicurezza nazionale, un altro generale, Michael Flynn, che ha definito l’islamismo “un cancro feroce da estirpare”. Alla Giustizia, un amico del lavoro americano (“gli immigrati clandestini sono un danno per l’America e sarebbe bene che si auto espellessero”). Ministro dell’Istruzione sarà Betsy Devos, già presidente del gruppo “American foundation for children”, contraria ai fondi per le scuole pubbliche. Al Commercio un curioso personaggio, Wilbur Ross, diventato miliardario con la ristrutturazione di aziende sull’orlo della bancarotta. Dare l’Energia a un texano, Rick Perry, ex governatore fa capire dove batte il cuore dell’Amministrazione (i combustibili fossili) è coerente con il dare l’Ambiente a Scott Pruit, che ha guidato feroci battaglie legali contro le iniziative di Obama.
Potrei rileggere i loro curricula in un’ottica repubblicana e ne uscirebbero profili di tutt’altra natura. Manca in questo elenco l’uomo che giudico chiave, la mente del Presidente, quello sempre al di là della linea d’ombra, Stephen Bannon: ne parlerò in un altro Cameo.
L’aspetto più divertente è stato il bacio della pantofola, all’ultimo piano della Trump Tower, delle spocchiose felpe californiane che avevano sparato a zero contro Trump, dopo essersi arruffianati, con mostruosi finanziamenti (privati), con Obama e Clinton. C’erano tutti, tanti soldatini intorno al tavolo kitsch con vista kitsch su Central Park: Tim Cook, Larry Page, Sheryl Sandberg, Jeff Bezos, Elon Musk, Satya Nadella. Li aveva preceduti il peggiore di tutti, il filantropo (condom e galline ovaiole a iosa) Bill Gates che aveva augurato a Donald Trump di essere il nuovo John Kennedy (personalmente l’avrei considerata un’offesa). I giganti dell’industria classica, come Ford, Gm, Fca, United Technologies vanno sul concreto: annunciano retromarce clamorose di contro-de-localizzazioni, di assunzioni di operai e di tecnici americani, dell’abbandono di stabilimenti all’estero.
L’aspetto triste di una leadership che non ha accettato la sconfitta alle urne.
Riccardo Ruggeri