A ogni nuova versione dell’iPhone, gli utenti di Apple si agitano. In questo mese, da utente scanzonato, mi sono divertito a leggere commenti, mini dibattiti, di varia umanità giovanile e giovanilista, sull’ultimo nato, il mitico 7. Li ha delusi: il 7 è troppo uguale al 6, dicono. A un diversamente giovane come me, parrebbe una critica idiota: tenetevi il 6, direi.
Ho il 5, perché il precedente 3 un giorno si spense per sempre, anche se per le mie esigenze era fin troppo esuberante: facevo e ricevevo telefonate e mail, leggevo e scrivevo idiozie su Twitter. Che avesse una potenza superiore a quella dei computer che spararono gli uomini sulla Luna, come dicono con orgoglio quelli che giudicano quest’epoca la migliore di tutti i tempi, mi pare irrilevante, per la sua evidente inutilità.
La seconda critica è che ora non c’è più il jack, cioè la presa per l’auricolare tradizionale, quella con i classici fili, ma i nuovi Airpods, fili esenti. Come vecchio signore, legato a un mondo ormai superato, rifiuto di introdurre oggetti terzi nei miei preziosi orifizi: ho sempre avuto un rispetto maniacale per la loro privacy. Nei treni svizzeri c’è spesso un vagone dove non solo non è ammesso l’uso del cellulare, con o senza auricolare, ma è pure vietato parlare fra le persone, se non bisbigliando: avanguardia pura. Certo, Tim Cook non lo può spiegare ai nativi digitali, ma è stata ovvia la sua mossa: gli auricolari li producevano altri, gli Airpods li produce lui. I 179 dollari per questi dolcetti-scherzetti di plastica a bassa tecnologia (a occhio il full cost dovrebbe stare fra 3 e 5 dollari) immagino sia stato fissato per quella fascia alta di gonzi che rappresentano il top della clientela Apple. Ovviamente, tutte le società che producevano hardware da inserire nella presa dell’auricolare, tipo termometri, scanner, sistemi di pagamento, dovranno pagare la Apple per la licenza.
Il mondo di Silicon Valley è un curioso ecosistema basato sulla violenza psicologica verso i clienti, il ricatto verso i fornitori, la spietatezza («pietà l’è morta», cantavano i partigiani) verso i concorrenti, la lobbying verso gli enti regolatori, la truffa verso gli Stati (rifiuto di pagare le tasse). Mi ricorda il mondo dell’automobile anni Ottanta-Novanta. Ci comportavamo così perché credevamo di essere destinati alla pérennité, (copyright Peugeot), invece era semplicemente iniziato un inarrestabile declino che non sapemmo governare.
A ogni uscita dell’iPhone di turno nascono una serie di contestazioni, per lo più di taglio tecnologico o funzionale, quindi irrilevanti. L’unico aspetto positivo è che anche in quel mondo si sta palesando, non certo una coscienza, ma un imbarazzo (non vado oltre) verso i comportamenti di Silicon Valley: più lo studi, più lo conosci, più cresce il ribrezzo. Ecco allora in America l’aumento di quelli, ovviamente della classe media e povera, che stigmatizzano queste aziende. Come dice Evgeny Morozov, siamo in presenza di un certo numero di feudatari digitali sempre più potenti, che vogliono comandare il mondo con le loro piattaforme, mentre noi cittadini votiamo leader per farne sovrani che ci proteggano anche da costoro. Se questi però rinunciano al loro ruolo sovrano, e accettano di essere psicologicamente sudditi di questi feudatari, è finita. Se credi alle ridicole favole di costoro: «la libertà deve essere perseguita solo nel mercato», declinazione dell’insuperata «mi tocca fare il lavoro di Dio», del mitico Lloyd Blankfein di Goldman & Sachs, diventi loro servo.
Rimango con il mio iPhone 5 fino alla sua naturale dipartita, intanto sto a osservare come questi feudatari digitali gestiranno la saturazione del mercato nella quale sono piombati, e il declino che seguirà. I grandi manager si vedono quando il mercato crolla, i grandi leader nelle sconfitte. Mi sfugge perché da cittadino comune mi debba sentire in guerra con questi feudatari digitali, in fondo è solo una forma di criminalità manageriale di esaltati che vogliono dominare il mondo. Che ci sia qualcos’altro sotto, che animalescamente percepisco, ma non so esplicitare?
Riccardo Ruggeri