Uno dei miei cavalli di battaglia è sempre stato l’analisi-difesa dell’industria delle industrie, così chiamo quella dell’auto. Perché? Ovvio, lì confluiscono tutte le innovazioni, tutte le tecnologie, tutti i nuovi materiali e processi. E’ pure il maggior produttore di occupazione di qualità, per le sue storie sindacali passate ha un grande rispetto verso la dignità del lavoro (nulla a che vedere con la miserabile gig economy, lo schiavismo di Amazon e di Alibaba, la sconcia uberizzazione che sta inquinando la nostra società civile). Il lavoro è un asset prezioso e strategico, senza di lui non esiste “ascensore sociale”, non esiste crescita, non esiste democrazia.Una premessa. Proprio perché sono un liberale nature non ho nessuna difficoltà ad ammettere che sono favorevole a una “politica industriale” degli Stati a favore di business che lo meritano: l’auto è uno di questi. Resta insuperabile il modello della Signora Thatcher: a) lascia fallire British Leyland; b) licenzia i suoi azionisti e manager inetti e indegni; c) vola in Giappone, si accorda con Nissan (poi con Honda) affinché vengano in Uk a produrre, mettendo a disposizione un’impeccabile “politica industriale”, concepita per salvare sia l’occupazione, sia il comparto ben più importante della componentistica auto. Una strategia che ha permesso all’industria inglese di essere il secondo produttore europeo, pur senza aver alcun costruttore nazionale. Genio.
Esempio che l’Italia non ha seguito, qua hanno preferito fare di Torino una “città della cultura” e dei suoi mitici stabilimenti dei miserabili “cacciavite”. In quest’ottica deve essere visto l’incontro di Donald Trump con Mary Barra (Gm), Mark Fields (Ford), Sergio Marchionne (Fca): la messa a punto di una politica industriale per l’America dell’auto.
Apro una parentesi. Trump non è un banale populista, come ci raccontano i media nostrani, ma un capitalista, scelto da quella parte dell’establishment americano (l’apparato industrial-militare) che ritiene fallimentare la strategia del trio Clinton-Bush-Obama. La loro visione dominante (a essa si erano associati la maggioranza degli economisti e dei media, ripetendo fruste formulette) era che l’America avrebbe mantenuto il proprio primato solo trasformando la globalizzazione in un ordine mondiale, governato da uno “scambio finanza-industria” Usa-Cina, attraverso una rete di istituzioni sovranazionali a loro succubi (Europa compresa), e solo grazie a trattati capestro per i popoli (Tpp, Ttip).
L’incapacità delle leadership occidentali al potere a superare la crisi del 2008 ha mostrato che il Re era nudo. Un pezzo rilevante dell’establishment si è convinto che la deindustrializzazione e le gravi ferite sociali prodotte (classe media impoverita, classe povera sedata), avevano indebolito fortemente l’America, decisero allora di non aggrapparsi, da un lato alla sola forza militare, dall’altro al dollaro e alla finanza di Wall Street, abbandonando la manifattura ai cinesi. Così hanno scelto Trump, uno di loro. Chiusa parentesi.
Trump ha dettato alle Big Three (Gm, Ford, Fca) la sua politica industriale: enfasi sull’auto americana, priorità all’occupazione americana, ai carburanti convenzionali, a una normativa ambientalistica intelligente. Finalmente, uno che scopre come dietro i grandi sogni obamiani ci sia solo fuffa: una ridicola furbata come l’auto senza autista, e una soluzione ancora troppo lontana per essere praticata su larga scala, l’auto elettrica. L’idea delle felpe californiane era scellerata: impossessarsi dell’industria delle industrie, imponendo un banale algoritmo che avrebbero ridotto un prodotto nobile a una banale “carrozzeria”. Spero che Trump metta costoro a cuccia una volta per tutte.
Per Fca, per i suoi azionisti, per Sergio Marchionne, Trump è stato una botta di fortuna: l’obiettivo (obbligato) di Marchionne di vendere Fca si realizzerà, ci penserà Wall Street a sostenere il titolo, così l’Amministrazione a ridimensionare le accuse di Epa, permettendogli di presentarsi al 2018 con un valore del titolo accettabile per il “consolidamento” in Gm.
Fca sugli scudi: Obama l’ha creata, Trump l’ha salvata. Prosit.
Riccardo Ruggeri