Che tristezza osservare New York dopo la nomina di Donald Trump a Presidente, leggere il New York Times, focalizzarsi sulla fauna dei giovani rivoluzionari di Wall Street che, d’intesa con i loro genitori, urlano frasi rivoluzionarie, spaccando vetrine, per tornare a sera nei loro confortevoli nidi in Park Avenue. Sulle élite che hanno puntato tutto su Hillary Clinton, svegliarsi con Donald Trump presidente avrebbe dovuto essere l’occasione per una sana, oltreché doverosa, autocritica. Saper fare autocritica è uno dei punti fermi del bagaglio culturale di una classe dominante, sopra tutto se vuole sopravvivere. Una piccola chicca, riguardante il New York Times. Durante tutta la campagna elettorale si è posto come tappettino nei riguardi delle oscenità passate e presenti di Hillary Clinton, attaccando con altrettanta volgarità le volgarità estreme di Trump. Penose perfino le successive scuse. Dopo i gossip di risulta sulle attività sessuali del Trump di mezza età, il Nyt si butta sul filone tasse, investe per carpire la sua dichiarazione dei redditi del ’95. La pubblica, a chi gli fa notare la possibilità di azioni legali, il direttore Dean Baquet va ad Harvard (dove se no?) e, gonfiando il petto, dice: “Sono pronto ad andare in galera pur di far conoscere agli elettori le sue dichiarazioni dei redditi”. Semplicemente ridicolo. Perché tacere che i quattro fallimenti di Trump sono avvenuti nel rispetto della legge (Chapter 11) e per i successivi 20 anni si è avvalso del previsto credito d’imposta? Se fosse il giornale indipendente che si spaccia, avrebbe dovuto fare un parallelo sulle modalità di costruzione dei patrimoni dei Clinton e dei Trump. Lo stesso avrebbe dovuto fare sulle attività sessuali di entrambe le coppie, sui rapporti con il sistema bancario, pubblicando le sterminata documentazione di Wikileaks che li riguarda.
Questi liberal newyorchesi fanno tenerezza, sono fermi agli anni Novanta, quando tutto l’Occidente, specie le Classi Dominanti, erano in preda a orgasmi multipli nell’attesa del mondo nuovo che sarebbe nato dalle ceneri del comunismo. Si affrettarono a chiamare il comunismo sconfitto “stalinismo”, come se Lenin non fosse stato un criminale come Stalin, in realtà lo fecero per coprire loro stessi, vergognandosi di essere stati comunisti mascherati da liberali; di qui l’odio verso Putin, immagine riflessa di loro stessi. Il grande Allan Bloom scrisse parole definitive su costoro (gli costò il Nobel), contestò, per primo, l’idea trionfalistica secondo la quale questo capitalismo aveva sepolto per sempre il totalitarismo comunista o fascista. Scriveva Bloom “Qualora si dovesse cercare un’alternativa non c’è altro luogo dove cercarla. Mi permetto di suggerire che il fascismo ha un futuro, per non dire il futuro”. Che il fascismo abbia un futuro lo stiamo vedendo da vent’anni, con una accelerazione dopo il 2008. Che altro sono, politicamente parlando, le banche e le aziende canaglia oggi dominanti? E dov’è finito il mitico giornalismo d’inchiesta americano? Se vogliamo conoscere i veri aspetti (sconvolgenti) della campagna elettorale di The Hillary abbiamo dovuto ricorrere ad Assange.
Certo, quando Allan Bloom sosteneva che il fascismo aveva un futuro, le felpe californiane erano all’asilo, così gran parte dei finanzieri di Wall Street, e pure molti giornalisti del Nyt, ma la sua intuizione fu straordinaria. In fondo era l’idea del giornalista Mussolini, banale e al contempo geniale: convincere persone normali che, se ben guidate, potevano fare qualcosa di straordinario. Hannah Arent lo scrisse in tempi non sospetti “E’ come se l’umanità fosse divisa tra quelli che credono nell’onnipotenza umana e quelli per cui l’impotenza è diventata la maggior esperienza della propria vita.”
Il capitalismo deviato di rito californiano-newyorchese è banalmente questo. Individui che non sanno mettersi in discussione, incapaci di uno straccio di autocritica, rifiutano di prendere atto che le loro teorie e ricette altro non sono che uno dei tanti possibili punti di vista sul mondo, e che tutti questi hanno medesima dignità. Non so se siano fascisti, di certo non sono liberali.
Riccardo Ruggeri