Il lavoro come speranza e dignità. Omaggio a Ivan Illich, un precursore

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Da tempo, trascorro l’ultima settimana dell’anno a Zurigo in una bomboniera a tre stelle, sulla collinetta di Lindenhof. A fianco dell’hotel, una lapide romana (15 a C) ricorda il sopraintendente alle dogane Lucius Aelius Urbicus. Uso questo periodo per bighellonare fra musei, gallerie d’arte, librerie, non mi faccio mancare l’amato “rösti” di Kronenhalle (patate grattugiate, saltate in padella con burro e sale, con alle pareti Chagall, Mirò, Picasso, dipinti quando non erano ancora in grado di pagare il conto).

In certi momenti i miei pensieri diventano ingovernabili, gira e rigira si concentrano implacabili sul futuro dei miei nipotini (sarà una fissazione?). Sono i giorni in cui pianifico il lavoro di scrittura dell’anno a venire. Nel 2017 ho deciso di concentrare i miei sforzi di analisi su un unico tema, “il lavoro come speranza e dignità”, perché tutti gli altri racchiude: economia, sicurezza, immigrazione, terrorismo. Curioso, settant’anni fa mio papà considerava “il lavoro come riscatto”, io passai la vita praticando “il lavoro come dignità”.

Nel 1981 lessi un libro, Shadow Work (Lavoro ombra), di Ivan Illich (un raffinato teologo messo in pausa dalla Chiesa Cattolica per le sue idee): introdusse un concetto per me nuovo, la distinzione fra “sussistenza” e “lavoro ombra”. Mi affascinavano entrambi i concetti, specie il secondo. Purtroppo, non fui in grado, allora, di capire che non era un flato tardo sessantottino, ma aveva una sua geniale chiave di lettura:

“Una casalinga di oggi va al mercato, sceglie due uova, le porta a casa sulla sua auto, sale con l’ascensore nel suo alloggio, accende il fornello, estrae dal frigo il burro, le frigge: con ciascuna di queste azioni ha aggiunto valore. Sua nonna non faceva così, andava nel pollaio, prendeva due uova, il lardo lo aveva già sciolto lei, accendeva la legna raccolta nel bosco, le friggeva. In tempi diversi, entrambe preparano lo stesso piatto, ma una sola usava servizi ad alta intensità di capitale: automobile, ascensore, elettrodomestici. La nonna creava “sussistenza”, la nipote faceva un “lavoro ombra”.

Illich battezza così qualsiasi attività ove il consumatore “trasformi” una merce acquistata in un bene utilizzabile, “senza venir retribuito”.

Quando lessi Ivan Illich vigeva il pieno impiego (retribuito) e il “lavoro ombra” non lo percepii come un problema, anzi, sorrisi di questo intellettuale in tonaca. Eppure allora facevo il direttore dell’organizzazione e del personale di una holding con 42.000 dipendenti, avrei dovuto sapere di cosa parlava. C’era il boom, non capii la sua affermazione prospettica: “I vostri nipoti non avranno il pieno impiego, avranno sempre meno lavori retribuiti, avranno solo lavori ombra”.

D’accordo, Ivan Ilich era un genio eretico, guardava alla nostra società con lo sguardo dell’archeologo, però, lo confesso, più passano gli anni più provo un brivido, mi chiedo, e se avesse avuto ragione lui? Il “lavoro ombra” è lì dietro l’angolo o è già arrivato? Stiamo forse per diventare schiavi dell’Entità che ci governa? Una “razione sociale” (vegana?), gratuita, identica in tutto l’Occidente (McDonald’s di Stato?), come le razioni militari della prima Guerra mondiale (carne in scatola argentina, utilizzate anche nella seconda!), in cambio di “lavori ombra”? Terrificante.

Eppure, i “non lavoratori” sono ormai in maggioranza, articolati in un’infinità di specie e di sottospecie, i pochi che lavorano (all’antica) sono terrorizzati, o da licenziamenti pianificati o dalle “tasse”, se autonomi. E la risposta quale è? Il jobs act, i voucher, la share e la gig economy, i driver di Uber, i rider di Foodora, gli schiavi di Amazon, tutti nipotini del vecchio capolarato dei pomodori. Un mondo pieno di “ombre”, dove solo i kapò sorridono.

Il genio di Illich fu assoluto, divenne il primo archeologo che studiò una civiltà decadente e decaduta, l’attuale, prima ancora che questa si palesasse come tale, e la descrisse, mixando scienza e fantascienza sociali.

Guardo i miei nipotini, li immagino adulti, al loro primo giorno di lavoro (per me fu come il primo giorno di scuola, ero così eccitato di diventare uomo). Lo confesso, non posso accettare un loro futuro di “lavoratori ombra” che vivono con “razioni sociali”, distribuite da spacci statali, pagati con voucher, ottenuti a loro volta dal reddito di cittadinanza. Più passa il tempo, più la faccia scavata e butterata di Ivan Illich mi appare, ci sono momenti che vorrei scacciarla. Guai scacciare i geni della libertà.

www.riccardoruggeri.eu

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