Oggi il Cameo va sul velluto, nessuno di lor signori oserà criticarlo. Qua mi limito a riferirmi a uno studio di Dani Rodrik, economista che insegna a Harvard (tempio dei dem.), il testo è stato pubblicato dall’eccellente magazine liberal inglese Prospect, ripreso con tanto di bollino di garanzia “politicamente corretto” dalla rivista italiana dei radical chic “Internazionale”. Condivido gran parte dei contenuti, al punto che come titolo ho usato l’originale.
Il successo (politico) della “globalizzazione selvaggia” (senza quell’aggettivo sarebbe stata una cosa seria e non devastante per la massa dei “perdenti” che ha prodotto) è certificata da un discorso (mitico) di un leader mitico (Tony Blair), da un partito all’epoca avanguardista (Laburismo blairiano), da un’atmosfera magica (Congresso laburista del 2005), da un paio di frasi scolpite nella storia: “Qualcuno dice che dobbiamo mettere in discussione la globalizzazione, se così fosse tanto vale mettere in discussione il fatto che dopo l’estate c’è l’autunno. Il nostro è un mondo che sta cambiando, pieno di opportunità “ma solo per chi è veloce ad adattarsi” e “lento a lamentarsi”. Questo ci ha lasciato Blair prima di diventare molto ricco.
Dodici anni dopo, il tempio delle élite più rarefatte dell’Occidente pseudo liberale certifica quello che noi apòti di ogni ordine e specie avevamo intuito, peggio avevamo previsto da subito, considerando la globalizzazione selvaggia un regalo (idiota) al nemico (Cina) che dichiarava onestamente di volerci dominare. Il tutto pur nella nostra modestia intellettuale, controbilanciata però dalla massima popolare che ci guida: “ ‘cca nisciuno è fesso”. Infatti, Cina e altri asiatici hanno sì partecipato alla “globalizzazione selvaggia” ma alle loro condizioni, peggio, con politiche commerciali e industriali proibite dal Wto (gestione in autonomia delle loro monete, controllo sui flussi internazionali di capitali, etc.). Adesso i colti si accorgono che gli asiatici hanno sì strappato alla povertà centinaia di milioni di loro concittadini, però impoverendo altrettanti cittadini occidentali, al netto dei quattro gatti delle multinazionali e delle élite professionali, diventati, nel frattempo, fantazzionamente ricchi. Un giochino micidiale, per noi occidentali, purtroppo a somma negativa.
Rodrik conferma che è proprio andata così, ma curiosamente riconosce che i fautori della globalizzazione selvaggia erano in buona fede. Poi però ci racconta, con dovizia di dottrina, che già a cavallo dell’Otto-Novecento era avvenuto un caso assimilabile a questo eppure costoro non hanno colto l’insegnamento della Storia. E’ quindi doveroso concludere che le nostre élite erano e sono “incompetenti, ma in buona fede”.
Alla fine Rodrik scopre l’acqua calda: a) Se il capitale è molto più mobile del lavoro, il lavoro è sballottato di qua e di là, esposto a ogni tipo di shock; b) Se il capitale diventa mobile è molto più difficile tassarlo. Ergo i Governi sono costretti a finanziarsi tassando classe media e povera, consumi e lavoro (sic!). E conclude che la globalizzazione è un processo reversibile, e non irreversibile come ci avevano sempre raccontato.
Le conclusioni? Un mondo capovolto. I “perdenti” della globalizzazione selvaggia, per essendo dei poveracci, diventano così “evasori fiscali” nella vita sociale, “populisti” nella vita politica, “incompetenti” nella gestione del governo. L’accusa di “incompetenza” agli avversari da parte di élite certificate a loro volta come “incompetenti” dai risultati consuntivati dopo trent’anni di potere assoluto, lo considero il massimo della disonestà e della volgarità intellettuale. Costoro sono indegni, prima di tutto culturalmente, di rimanere al potere. Dovremmo essere proprio noi delle élite “normali” liberarci di questi colleghi, “incompetenti certificati”.