Il “mio” Po è diventato uno stagno del Taj Mahal

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Per noi giornalisti il Ferragosto è una linea demarcazione. All’inizio dell’anno, essendo degli inguaribili ottimisti, immaginiamo che i primi 225 giorni dell’anno saranno esaltanti, siamo convinti che ci attenda un grande futuro, siamo certi di poter scrivere pezzi pieni di speranza, desideriamo che non ci siano guerre, che i terroristi islamici diventino buoni, che l’immigrazione commerciale si dia una regolata, che i rifugiati siriani vengano, e noi apriremo loro le nostre case, che l’economia mondiale cresca all’impazzata, che Bergoglio continui a parlare un linguaggio talmente popolare da confonderlo con uno di noi, che il Pil cresca almeno di “uno virgola”, che le banche si decidano una volta per tutte: o falliscano serenamente, o sopravvivano con i quattrini dei loro azionisti, ma ci lascino in pace.
Via via che il Ferragosto si avvicina, le speranze lentamente si spengono. Per esempio, ormai è certo: il Pil, ammesso che cresca, sarà di un miserabile “zero virgola”. Come se non bastasse, quest’anno, proprio alla vigilia di Ferragosto, ho dovuto prendere atto di un fatto, per me sconvolgente: al Po non arriva più l’acqua del Monviso. Non lo credevo possibile. Me lo hanno confermato, con un bel pezzo, due giovani colleghe della Stampa, Giulia Scatolero di Cuneo e Letizia Tortello di Torino (ricordo un suo pezzo memorabile su una passeggiata notturna nel centro di Torino, trovatelo e leggetelo, dovrebbe far vergognare tutti quelli dei salotti che minimizzano il fenomeno dell’immigrazione-integrazione). Di chi la colpa? Del prelievo selvaggio dell’acqua del Po per usi idroelettrici e agricoli. Se fossimo un Paese serio (è una battuta, in Europa i Paesi seri non esistono, salvo la Svizzera), i ladri d’acqua dovrebbero essere perseguiti per disastro ambientale. Per l’acqua un tempo si facevano guerre sanguinose, ora ridicoli referendum.
Le fotografie della mitica sorgente del Pian del Re (mai nome fu più azzeccato) ai piedi del Monviso (con il Monte Ben Lomond nello Utah se la batte per essere considerato il monte del logo Paramount) sono agghiaccianti, direbbe Antonio Conte. Così il primo tratto tra Revello e Martiniana Po, nel Saluzzese, per non parlare del “mio ”Sangone”. Sulle sue sponde, nel 1940 (frequentavo la prima elementare), una volta alla settimana Mussolini ci obbligava, guidati dal nostro maestro (lui in orbace, noi vestiti da figli della lupa), a cercare lungo il suo greto, e a consegnare al maestro, dei pezzi di metalli vari, che dovevamo chiamare “Ferro alla Patria”, anche se era latta. Veniva pesato e immagino comunicato a Palazzo Venezia, come oggi si fa con i dati Istat. Lo confesso, preferivo gli altri giorni, quando in classe si facevano le aste e si contava col pallottoliere.
Oggi, quando finalmente il “mio” Po (non perdonerò mai alla Lega di aver mandato a prelevare l’acqua benedetta a un grezzo lombardo, certo Bossi, e non a Gipo Farassino, mitico cantore delle nostre case di ringhiera; a proposito, la mia casa di Torino è di ringhiera) arriva a Torino, è un fiume malato, è stravolto, sembra appena uscito da una camera iperbarica. Quest’anno si è fatto possedere, peggio violentare, da orrende piante acquatiche tropicali,  giallognole, che fanno sembrare la “mia” piazza Vittorio Veneto uno stagno laterale del Taj Mahal.
Superato il Ferragosto, mi attendono gli ultimi 140 giorni di questo 2016. Il mio problema non è cosa scrivere. Per fortuna ho più idee che energie e capacità, soprattutto ho uno schema. È simile a quegli album dei bambini dell’asilo, la figura c’è già, me la consegnano ogni giorno queste ridicole leadership del G7, basta colorarla. Continuerò con i miei Camei, il problema è loro, dovranno riuscire a trovare posto nel grande affresco-puzzle che sto scrivendo da una decina d’anni. La mia linea editoriale è sempre la stessa. Poi, un importante editore mi ha chiesto un libro sulla “mia” America, l’ho iniziato. Come si vede, il problema non è cosa scrivere, ma cosa leggere. I giornali  stanno diventando tutti uguali, come tanti Big Mac, differenziati solo dal tipo di lattuga.
D’altra parte è giusto così, ormai si limitano a mettere in bella le storytelling degli uffici stampa e degli spin doctor dei leader. I giornali un tempo indipendenti stanno diventando di partito, quelli di partito stanno trasformando il commento in ossequio.
Per un mese ho provato a comprare, ma non a leggere, i top five della stampa anglosassone; a fine mese li ho letti, parte fuffa, parte cipria. Meglio Internazionale (cioè sempre loro), almeno hai, in italiano, il meglio dell’ovvio.

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