Adesso siamo pronti a votare: vogliamo andarci subito

I primi due atti che ci porteranno alle elezioni di primavera si sono compiuti, i referendum del Lombardo-Veneto li ha vinti Matteo Salvini, le elezioni siciliane Nello Musumeci. Perché ha vinto? Nessuno finora aveva avuto l’idea di scegliere, per la Presidenza della Regione Sicilia, un candidato semplicemente capace di governare, e a detta anche degli avversari, onesto. Per preparare questo spezzatino alla siciliana con patate, Silvio Berlusconi ci ha messo la carne, Giorgia Meloni il condimento, Matteo Salvini le patate. I siciliani hanno gradito. Si sono detti, peggio di Rosario Crocetta è umanamente impossibile fare, dopo Roma, Torino, Livorno perché rischiare con il M5S? Tanti voti ma non la Presidenza.
Al voto doveva seguire un (curioso) dibattito su La 7 fra il secondo e il terzo arrivato. Inopinatamente Luigi Di Maio ha cancellato l’incontro con Matteo Renzi con una motivazione volgare: il Pd non è più il nostro competitor. Vero, ma l’educazione istituzionale avrebbe gradito non dirlo. L’unica spiegazione è una vendetta personale postuma. Quando i due galli Grillo e Renzi, nel pollaio dello streaming (ricordate?), si incontrarono, Renzi vinse il match con una straordinaria battuta finale “Beppe, esci dal blog”, Grillo andò K.O.. Ora, a freddo, la vendetta si è compiuta.

Forse è stato meglio così, i due contendenti apparivano stanchissimi, il dibattito sarebbe stato moscio, i toni alti, imbarazzante (per noi) il reciproco non riconoscimento, peggio il disprezzo. Due dischi rotti, l’uno avrebbe esaltato i suoi presunti successi, con l’ossessivo 974.000 nuovi occupati (attenti “occupati” non “nuovi posti di lavoro”, senza dire dei 20 e passa miliardi che ci sono costati), l’altro avrebbe ripetuto gli obiettivi del movimento, la loro onestà, etc. Stante l’isteria culturale di entrambi, immagino che gli ascoltatori avrebbero capito poco. L’uno, appena tornato dalla fonte battesimale di un Obama ormai spretato, avrebbe iniziato con vaccini e scie chimiche varie, per poi attaccare sulle fake news, l’altro si sarebbe difeso attaccando su Mps e su Etruria. E non poteva essere diversamente. Entrambi appartengono alla fake generation: Renzi rappresenta le fake news istituzionali, Di Maio quelle populiste del Web. Due adolescenti, uno che inciampa sulla geografia e sui congiuntivi, l’altro che promette ma non mantiene (“scomparirò se sconfitto al referendum”). Sarebbe apparso in tutta la sua evidenza, come dice Silvio Berlusconi, che entrambi non hanno mai fatto un lavoro vero in vita loro, almeno Emmanuel Macron ha finto di fare il banchiere, persino Carles Puigdemont ha finto di fare il pasticciere e il giornalista (due mestieri compatibili), loro nulla.

Perché allora avevano deciso di incontrarsi? Perché sono due sconfitti, ma speravano di raccattare voti l’uno a danno dell’altro. O forse di non perderli a favore di Salvini. La sua gigantografia, invisibile ma incombente sullo sfondo, sta terrorizzando sia loro due che Berlusconi.
Politicamente Renzi è alle corde (una vittoria nel 2014, poi tutte sconfitte), Di Maio ha come incorporato il destino di futuro perdente, come spesso succede a quelli che passano dalle stalle alle stelle. Il profilo di Di Maio per la leadership di un movimento di rottura come i Cinquestelle è tecnicamente inidonea: qualsiasi head hunter avrebbe consigliato a Beppe Grillo di scegliere la serietà torva del visionario Roberto Fico, mai un tre bottoni con un profilo istituzionale finto, comunque non coerente con il profilo del movimento, ancor meno con i due fondatori: due geniali visionari.
Lo stesso Renzi non ha saputo, per dirla in termini markettari, riprofilarsi. Non è facile uscire dal linguaggio della Leopolda, da scoppiettante fattosi barocco, di colpo invecchiato. Poi, nessun lavoro è stato fatto sul suo linguaggio del corpo, peggio, l’iniziale legnosità mascherata dall’età e dall’eloquio, si è ora palesata, accentuandosi. Appare come un uomo solo, circondato da uno staff adorante ma incapace di capire che potremmo essere ai titoli di coda.

In realtà questa vicenda era nata da una mossa sprovveduta di Maria Elena Boschi che lanciò un incauto guanto di sfida a Di Maio. Geniale l’immediata “accettazione con vincolo incorporato” di Di Maio: “Sì, ma ad Arezzo nella piazza antistante la sede di Banca Etruria”. Se il dibattito ad Arezzo ci fosse stato, Boschi sarebbe stata massacrata e con lei sarebbe crollato il castello fatato del giglio magico, un luogo ove, credo, ormai vivano in un’atmosfera costantemente pressurizzata, con sottofondo di musiche rinascimentali fiorentine del Conte Giovanni Bardi.

Capisco che per noi analisti (pure quelli indipendenti come me) sia seccante ammetterlo, ma in questa fine legislatura il giocatore più in forma è Matteo Salvini. Fu il primo a capire che per gli italiani il gomitolo “migranti e lavoro” era il problema dei problemi, ci ha lavorato, di ascia e di bulino. Gli elettori finora l’hanno premiato, vedremo in primavera. Nella politica italiana mai nulla è scontato, come nella cappella Sistina, si entra papa, si esce cardinale. Nel buio dell’urna noi italiani siamo saggi, ma anche spietati.

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