“ROMITI SAPEVA ASSUMERE DECISIONI DIFFICILI, PERCHE’ AVEVA EXECUTION”

Cesare Romiti sbagliò a non capire che doveva puntare sul core business, l’auto, e sulla sua internazionalizzazione. Le sue doti? L’execution, la capacità di rendere immediatamente operative le strategie, dote rara, per i manager così come per i politici. E la lealtà verso la proprietà, è stato l’unico ad, con Vittorio Valletta, a non avere mai avuto la tentazione di un golpe». A parlare dell’ex ad e poi presidente di Fiat, Cesare Romiti, scomparso nei giorni scorsi a Milano a 97 anni, è Riccardo Ruggeri, entrato in Fiat come operaio a Torino, presso l’Officina 5 di Mirafiori (operai Fiat pure i suoi genitori e nonni). Diventerà nel 1991 amministratore delegato del colosso New Holland, la nuova società per le macchine agricole Fiat-Ford entrambe in drammatica crisi, da lui, in 5 anni, risanata e quotata a Wall Street, «la più bella avventura manageriale della mia vita». Tra i più stretti collaboratori di Romiti, Ruggeri dice: «Sbaglia oggi chi dice che distrusse il sindacato. Il sindacato era già in crisi, con il caso Fiat 1980 si suicidò. E la marcia dei 40 mila colletti bianchi Fiat è una bufala: si mossero in 3 mila da Mirafiori. Gli altri manifestanti, come mia madre, erano persone comuni che decisero di aggregarsi spontaneamente per le strade di Torino. Nessuno di noi si aspettava una partecipazione di quel genere».

Domanda. Chi è stato Romiti?

Risposta. Ci sono due Romiti. Il manager che entra in Fiat come direttore finanziario nel 1974, diventa ad nel 1976. Fa un eccellente lavoro, poi a fine anni ‘80 si rifiuta di uscire nel pieno del successo. Come altri non capisce Mani Pulite e rimane abbarbicato al potere fino al pensionamento. Anni bui questi per lui e per la Fiat.

D. C’è anche l’imprenditore Romiti, che entra nella Finanziaria Gemina nel 1998, controllando Rcs, la casa editrice di cui è stato anche presidente fino al 2004, oltre che Impregilo e Aeroporti di Roma. Ma l’avventura imprenditoriale andò meno bene di quella manageriale. Perché?

R. Non ci si improvvisa imprenditore a 75 anni, il mondo stava cambiando, lui era un uomo datato.

D. All’indomani della scomparsa di Romiti, in tanti lo hanno ricordato con interventi e interviste. Che gliene pare?

R. Salvo alcuni ricordi di vita vissuta, trovo che molte ricostruzioni e valutazioni siano viziate dal fatto che si ragiona con le logiche di oggi su problematiche dell’altro ieri. Quello di Romiti era capitalismo classico, quello che viviamo oggi è il ceo capitalism, in cui al centro della scena non c’è più l’uomo ma il consumatore. Lui fu un campione della sua epoca, superiore anche ai suoi due capi, Gianni Agnelli e Enrico Cuccia.

D. La dote di Romiti?

R. In una Fiat condizionata dalla politica e dai sindacati, Romiti sapeva assumere decisioni difficili, perché aveva execution, la capacità cioè di passare dalle strategie alla realizzazione. Uno che non avrebbe mai fatto un decreto per controllare con un tampone meno di diecimila persone senza avere né i tamponi né l’organizzazione per eseguirli.

D. Mi fa un esempio di decisioni assunte?

R. Ero stato scelto da Romiti come Ceo della New Holland, nata dalla acquisizione da parte di Fiat trattori della Ford, entrambe tecnicamente fallite, si mettevano cioè insieme due moribondi. Decisi un’azione violenta, chiudere i due HQ (quartieri generali, 350 dirigenti e funzionari a Lancaster in Pennsylvania, altrettanti a Modena), creando un nuovo HQ di sole 20 persone a Londra. Uno schiaffo al Deep State che c’è in ogni grande organizzazione umana. Romiti mi appoggiò, Agnelli non l’avrebbe mai fatto. L’Avvocato mi chiamò quando decisi di chiudere l’intero ufficio della pianificazione strategica. Mi chiese: ma chi le farà le strategie se li licenzia tutti? Gli risposi con un sorriso: in un’azienda tecnicamente fallita le faccio io la mattina mentre mi faccio la barba. Le faccio un altro esempio.

D. Prego.

R. Un venerdì di maggio del 1991 mi chiama il presidente del Consiglio Giovanni Goria, mi comunica di avere appena firmato il decreto di scioglimento di Federconsorzi, che da un secolo era la rete di vendita di Fiat trattori. Da un giorno all’altro mi ritrovo senza più venditori sul territorio, tutta la quota di mercato in Italia sfumata in una notte, ovvia chiusura di alcuni stabilimenti. Anziché seguire la prassi di allora (e di oggi) «aprire un tavolo», e buttarmi in un estenuante negoziato mentre i concorrenti mi avrebbero portato via le quote di mercato, decisi semplicemente di prenderne atto della cessazione del rapporto con Federconsorzi. Proposi a Romiti di creare una nuova rete di concessionari privati, mi diedi un mese di tempo, girai, grazie all’aereo Fiat, tutta l’Italia agricola incontrando i potenziali concessionari, nominandoli sul campo. Romiti mi appoggiò. A Roma erano furibondi, avevo loro sottratto il giochino della mediazione e delle contropartite reciproche.

D. Romiti viene ricordato anche come l’uomo che ha sconfitto, o se vuole distrutto, il sindacato, l’uomo duro che impose la legge del mercato alla fabbrica nell’autunno caldo delle rivolte del 1980.

R. Una ricostruzione sbagliata, di chi non conosce o non ricorda più quegli anni. Successero due fatti che erano intollerabili. Primo, i sindacati accettavano che gruppi di operai violenti (si sapeva che erano adiacenti alle BR) facessero il bello e il cattivo tempo nelle officine, dileggiando gli altri operai e i capi. Secondo fatto, Enrico Berlinguer, il segretario del Pci, si presenta davanti ai cancelli di Mirafiori per dire che non ci si siede al tavolo del negoziato, ma che le trattative si fanno con il megafono nelle piazze. La Fiat aveva un problema di esuberi reale, così come reale era il problema della competitività. La trattativa era in mano alle avanguardie più radicali, il sindacato ufficiale era timido e ininfluente. Il capo della finta opposizione si era fatto barricandero. Erano controparti inaffidabili.

D. Ricapitoliamo: Romiti aveva annunciato 14mila licenziamenti, il 13 settembre del 1980 era iniziato lo sciopero a oltranza con il blocco di tutte le produzioni. Una lotta che durò 35 giorni e andò avanti anche dopo il ritiro dei licenziamenti. Si concluse il 14 ottobre quando 40 mila capi e quadri intermedi della Fiat sfilano per le vie di Torino in nome del diritto al lavoro. I sindacati a quel punto capitolano e firmano l’accordo sulla cassa integrazione. Operazione che aveva alle spalle la regia di Romiti?

R. Quella della manifestazione dei 40 mila capi intermedi è una bufala. Da Mirafiori si mossero in 3 mila, durante il percorso molti cittadini comuni li seguirono e divennero 40 mila. Mia madre, settantenne, ex operaia Fiat, mi telefonò: «Prendo la bandiera italiana e mi accodo». Le rivolte sono pericolose, come le slavine, sai come partono non sai come arrivano. Nessuno di noi si aspettava una tale partecipazione.

D. Il giorno dopo viene fatto l’accordo che prevede la cassa integrazione per 23 mila lavoratori.

R. L’accordo era pronto dal giorno precedente in verità. Vi era solo un punto, però dirimente, su cui ancora non vi sarebbe mai stata intesa: i sindacati volevano la cassa integrazione a rotazione, per tutti. La Fiat voleva invece poter decidere chi lasciare a casa, così da mettere fuori gli ex terroristi e i più estremisti. Dopo la manifestazione saltò la clausola a rotazione.

D. Il sindacato era finito?

R. Si era suicidato.

D. E oggi?

R. Il CEO capitalism non prevede un ruolo per i cosiddetti corpi intermedi (sindacati, confindustria et similia): ci sono gli algoritmi, i robot, la visione monopolistica del business. Un mondo sta scomparendo e noi crediamo alle fake truth che ci propinano, promettendoci un futuro luminoso. Invece sarà il divano di cittadinanza.

D. L’epidemia Covid-19 è un altro tassello?

R. Certo, con lo smart working, in realtà home working, gli imprenditori si renderanno presto conto che possono ridurre i dipendenti ottimizzando i processi. Chi resta, lavorerà da casa, tutto felice, non sapendo che lavorerà non più per 8 ore ma per 12-16 senza essere retribuito. Mi metto nei panni delle donne, non quelle dei salotti radical chic, quelle vere, che hanno lottato un secolo per andare fuori di casa a lavorare, a vivere, e presto verranno ricacciate brutalmente in casa.

D. Gli errori di Romiti?

R. Noi giovani del Comitato Direttivo gli dicevamo che il futuro era l’internazionalizzazione del core business, l’auto, lui invece, preso dal mondo romano e dall’enorme tasso di potere che una Fiat diversificata dava all’Avvocato e a lui, preferirono buttarsi in altri vari business, dalle assicurazioni alle costruzioni, disperdendo così le risorse.

D. La vostra era la visione di Ghidella, che voleva la fusione con Ford.

R. Esatto. Romiti doveva gettare la spugna alla fine degli Ottanta, nel massimo del successo. Lui e l’Avvocato dovevano permettere che Vittorio Ghidella facesse l’accordo con la Ford e Umberto Agnelli diventasse Presidente, come programmato.

D. Che rapporti aveva Romiti con Gianni Agnelli?

R. È stato sempre leale verso la proprietà.

D. E lei che rapporti aveva con Romiti?

R. Come tutti i potenti aveva una sua mini corte, io non ne facevo parte, ma non ne ebbi mai danni. Essendo due uomini di execution, ci parlavamo pochissimo, avevo una totale autonomia, approvava tutto quello che facevo. Era un uomo datato, duro ma vero.

D. Lei è stato poi licenziato dalla Fiat.

R. Sì. Sono stato licenziato nel 1996, appena ottenuta la quotazione di New Holland a Wall Street. Il mio ciclo era finito. Umberto Agnelli mi disse sorridendo: “Licenziato per eccesso di successo”. È stata la più bella avventura manageriale della mia vita. Grazie al licenziamento, rifiutai altre proposte prestigiose e divenni un lavoratore autonomo, una partita IVA. Feci tanti lavori, aprii start up, ora faccia persino l’editorialista. Ho solo una grande amarezza, essere governato da un a banda di inetti: niente execution, solo cipria e vanità.

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