Questi giorni post referendum sono orrendi. Quel modesto spicchio di élite a favore del No dà, in piccolo, l’esempio di quello che sarebbe avvenuto, in grande, se avesse vinto il Si. Per fortuna non ci sono armi, per cui ci si limita a praticare una “guerra civile” di parole. Come ovvio, la mia lettura è tutt’altra. Il destino del “giglio magico”, al potere o nella polvere, mi è del tutto indifferente (sono tre figurine Panini), ciò che mi interessa è il rapido ripristino del vivere civile.Il Si è stato il terzo segnale che il popolo ha mandato alla classe dominante occidentale. Da dieci anni i miei colleghi dell’establishment stavano applicando, in modo idiota, le loro stantie formulette economico-politiche: Risultato? Raddoppio della povertà, blocco dell’ascensore sociale. Io lavoravo, leggevo, scrivevo (le uniche tre attività che so fare dignitosamente) ma ero sempre più triste, più sfiduciato.
Poi arriva il 24 giugno 2016. Il 23 ero andato a letto presto, convinto, come tutti che il Si avrebbe vinto alla grande: il battage dei media inglesi e internazionali era stato implacabile. Mi sveglio, vedo su La7 il volto disfatto di Beppe Severgnini, capisco al volo che il miracolo si è compiuto, scatto in piedi e urlo “Reteee!”, come faccio quando segna il Toro. Lo confesso, da allora sto vivendo un periodo di estasi, mi pare di essere migliorato, persino fisicamente mi trovo più accettabile. Il saggio che stavo scrivendo (forse si chiamerà “America, un romanzo gotico”) ne ebbe un forte impulso, fra poco uscirà per Marsilio. Ho cominciato a pregare che The Hillary venisse battuta, convinto che se le due democrazie più antiche e potenti fossero tornate a essere due democrazie liberali, questa oscena, burocratica Europa si sarebbe riposizionata, economicamente e culturalmente. Il mio mondo liberale, il mio mondo basato sui valori giudaico-cristiani nei quali ero stato allevato, sarebbe tornato, i miei nipotini sarebbero vissuti in un contesto un po’ più degno dell’attuale. Poi è arrivato il referendum italico: ero convinto che avrebbe vinto il Sì. Vinse il No. Era l’ultimo (piccolo) segnale che il mondo stava cambiando.
Il risultato del referendum ha dato un bel colpo al nostro establishment, mi auguro ne facciano tesoro, anche se, conoscendoli, ne dubito. A proposito, nei prossimi giorni scriverò un pezzo a loro dedicato (Letterina di Natale per i miei amici dell’establishment).
Tornando al presente, mi sembra giusto, per l’impegno profuso in questi 34 mesi, dare a Matteo Renzi un’ultima chance, se la merita. Non si tocchi però il governo che ha tante cose da fare, si lasci lavorare il Parlamento, che da qui alla fine del 2017, può fare, serenamente, una legge elettorale ben elaborata, soprattutto, mi auguro, ben scritta. Il tram 1, partiva da via Catania e arrivava in via Settembrini, alla Fiat Mirafiori, lo prendevo ogni mattina alle 6,30, sabato compreso, c’era una targhetta in ottone con scritto “Non parlate con il manovratore”. Tutti si attengano a questa regola aulica, lasciamo lavorare il Presidente Gentiloni: è persona perbene. Ora mi sento garantito, il Presidente Mattarella non accetterà ricatti per andare a elezioni anticipate, anche se il popolo le invoca. Sono talmente importanti che devono portare al voto il popolo tutto, per una volta facciamoci bulgari, almeno come partecipazione.
Per Matteo Renzi c’è un’occasione irripetibile, a costo zero. In primavera, probabilmente andremo tutti alle urne per il referendum sul jobs act, il suo cavallo di battaglia. Se lo vince ha il diritto-dovere di capeggiare il Partito della Nazione alle elezioni politiche, mi pare sia ciò che vuole l’establishment: lo scontro finale. Se lo perde torni a Pontassieve, come dice lui: “senza paracadute, senza uno stipendio, senza un vitalizio, senza l’immunità”. Ma non deve preoccuparsi. E’ persona di tale valore intellettuale, di tale energia, di tale determinazione, con conoscenza così altolocate, che nessuna posizione nel mondo del management le sarà preclusa.
Gli italiani hanno bisogno di chiarezza: o si riapre o si chiude, definitamente, il dossier Renzi.
Riccardo Ruggeri