Ci sono individui che nascono in un momento sbagliato della storia, o meglio sono stati di certo utili per la loro epoca (seppur spesso non apprezzati) ma sarebbero stati più utili in altre, successive. E’ il caso di Armand Robin, nato in Bretagna nel 1912 e morto a Parigi nel 1961. I suoi genitori erano contadini bretoni assolutamente ignari della lingua francese, lui è un alunno brillante, frequenta il liceo, poi si getta, a corpo morto, nello studio delle lingue. A vent’anni vince una borsa di studio che lo porterà in Polonia e in Unione Sovietica. Vivendo per alcuni mesi in un kolchoz si rende conto di cosa sia il comunismo (reale) per i contadini russi, creando in lui una profonda, definitiva, disillusione verso la sua ideologia giovanile che, inorridito dalla sua execution, rifiuterà per sempre, diventando un intellettuale in odore di anarchia. Mal gliene incolse. Come succede a quelli che oggi rifiutano il politicamente corretto delle classi dominanti occidentali.
Nel dopoguerra i suoi loschi colleghi intellettuali francesi, due su tutti, Louis Aragon e Paul Éluard, lo accusarono di un triplice infamante reato “collaborazionismo, individualismo, anticomunismo”, iscrivendolo nella lista nera degli indesiderabili. Essendo costoro dei tipici fascisti mascherati da antifascisti, impregnati fino alle midolla del pensiero unico di sinistra non potevano far altro (Il mondo attuale con il pensiero digitale al potere non mi pare molto diverso, infatti le felpe di Silicon Valley e i gerarchi cinesi sono sulla stessa linea di pensiero, unico e monopolista). Nel 1941 Robin scriveva “La pietra di paragone del vero scrittore è sentirsi libero comunque, cosa che può facilmente ottenere se evita di far dipendere il suo ruolo di uomo da un ruolo politico”. Parole impronunciabili allora, e pure ora, nell’orrendo mondo del politicamente corretto che dobbiamo subire.
Dopo essersi impossessato di tutte le lingue europee, quindi del cinese, del russo, dell’ebraico, dell’arabo, oltre a fare il traduttore di libri, per campare si inventa un mestiere nuovo, spossante ma incredibilmente moderno: l’ascoltatore radiofonico ed estensore dei relativi bollettini di sintesi. Ascolta tutte le radio, da quelle naziste, a quelle dei partigiani francesi, a quelle anglosassoni, a quelle sovietiche. Nel 1953 ci scrive un libro “La fausse parole”(in italiano “L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti”, Giometti & Antonello editore in Macerata). E’ l’occasione per sbugiardare l’imponente sistema propagandistico organizzato dai sovietici e del suo contraltare occidentale. Lo sforzo di Robinnon solo di stare sempre desto nell’ascolto, ma anche incorruttibile nel pensiero, nel mio piccolo di ex manager imprestato al giornalismo lo capisco e con lui mi ci ritrovo.
Nell’epoca delle fake news (sia quelle istituzionali del potere, sia quelle private dei social) alle quali si stanno aggiungendo le fake truth (fatti autentici ma accostati in modo distorto) un personaggio come Armand Robin sarebbe stato un dono, per quelli di noi che lottano per rimanere liberi, sotto l’assedio violento, seppur suadente, della distorsione intellettuale e linguistica del Ceo capitalism. Queste sue parole sono di bruciante attualità: “Conoscere il potere equivale a essere riusciti a sfuggirgli; dargli un nome è distruggerlo; descriverlo nel dettaglio, con la stessa obiettività con cui gli entomologi descrivono un insetto, è persino peggio di distruggerlo”.
Paolo Febbraro, poeta, che l’ha recensito, scrive: “… quella realtà della coscienza che resta incombusta persino dopo gli assalti brucianti degli sparvieri mentali, cioè i grandi ingegneri novecenteschi delle psicologie di massa”. (Che bello il termine “sparvieri mentali”! Infatti, che altro sono Angela Merkel, Emmanuel Macron, Xi Jinping?).
Mi sento confortato, con il giovane amico coautore ora possiamo procedere a stilare le conclusioni del nostro libro sul mondo inquietante del Ceo capitalism, nato dal concime del Sessantotto quando, profeticamente, Allan Bloom scrisse “Il fascismo ha un futuro, anzi è il futuro”.