A bocce ferme, possiamo dire che l’aspetto più rilevante delle elezioni francesi sia stata l’ufficializzazione della fine del liberal conservatorismo gollista e della socialdemocrazia moderna, per dirla con Bersani: le due Ditte, che per quarant’anni si sono divise il potere, paiono prossime a portare i libri in tribunale. Per la Francia, un paese strutturalmente di destra (con una forte sinistra radicale), il vero dramma è stata la sconfitta di Fillon. I socialisti erano già anestetizzati, come tutti gli altri socialisti europei dal liberismo d’accatto che hanno praticato in questi anni. Nel momento in cui si sono venduti all’establishment si sono suicidati, come i laburisti inglesi e olandesi, i socialisti tedeschi e austriaci. I francesi, con un colpo di coda, si sono però inventati un vecchio “comunistone sudamericano” (Mélonchon) che copre con un linguaggio scoppiettante contenuti imbarazzanti, in termini di logica prima ancora che di politica. E’ però grazie a lui se il voto operaio e povero del nord non è confluito tutto nel Front National di Marine Le Pen.
Divertente poi Fillon, per mesi aveva descritto (per quello che è) Emmanuel Macron, bollandolo come un oggetto di plastica imprestato alla politica, un servo delle multinazionali anglosassoni, poi, al primo exit poll, si è precipitato sul palco invitando i suoi a votare per lui (che credibilità potrà mai avere costui?). Così ha fatto il fallimentare Hamon, che non si è neppure accorto come la maggioranza dei suoi pseudo socialisti si era già schierata con Macron. Ci mancava solo Hollande a esaltare il candidato che l’aveva tradito un anno prima. Piccoli buffoni di provincia.
Mi chiedo, possibile che Macron non si sia accorto che un paio d’ore dopo il primo exit poll, il suo profilo di rottamatore, di anti establishment, al quale aveva tanto lavorato di bulino, con fidate società di advertising, con i media di regime, sopra tutto con Brigitte, si era sciolto?
Premetto, a titolo personale, che non ho alcuna simpatia per i due candidati alla presidenza de la Republique , se fossi un francese non andrei a votare (sbagliando), non avendo lo stomaco di scegliere tra personaggi che sono molto più simili fra loro, nel profondo, di quanto possa apparire. Pur con tutti gli sforzi, non riesco a liberarmi del parallelo Vichy-Silicon Valley, i due mondi fascistoidi nei quali sono nato e sto concludendo la vita.
Ma la mia analisi, tipica del parvenu in politica che sono, è altra. E se l’establishment, e tutti i partiti cosiddetti repubblicani, a loro insaputa, lavorassero per Marine Le Pen, ottusamente convinti di poterla distruggere, in realtà aiutandola a farla diventare l’opposizione di Sua Maestà il
Mercato? Ipotizziamo, per un istante, che la “chiamata repubblicana” del 7 maggio non funzioni come avvenne l’altra volta nello scontro Le Pen senior e Chirac, e che Marine Le Pen raggiunga il 40%. E’ la soglia mitica che tutti gli sconfitti oggi si autoassegnano, considerandosi vincitori in pectore.
A quel punto, dopo l’11 giugno Macron dovrà governare, dovrà farlo con un’accozzaglia di deputati “cani sciolti” (modello collegi), dovrà applicare le sue “ricette californiane” sul lavoro (l’oggetto sul quale Marine si concentrerà, se capirà che l’immigrazione è sia sotto prodotto che moltiplicatore della mancanza del lavoro). Le Pen non dovrà far altro che giocare di rimessa, impalando di volta in volta Macron alle sue contraddizioni, e la nomination nel 2022 potrebbe essere possibile. A meno che la profezia di Houellebecq si faccia realtà, con la vittoria del candidato islamico, che nel frattempo un establishment al solito disperato, si sarà inventato per salvare la roba e la ghirba.
Ho ascoltato un’intervista a un amico di Macron che lo ha descritto come un supermen intellettuale e fisico, con un’unica debolezza: “si irrita se non gli dai ragione”. Il segnale debole che mi mancava per chiudere il cerchio sull’uomo.
Riccardo Ruggeri