Ricevo da un mio ex collaboratore questa mail. Il pubblicarla è già una risposta, e vale per i molti lettori che mi hanno scritto sul tema “lavoro”, in particolare le riflessioni di M.R.
“Caro Ruggeri, sono felice che si sia posto per il 2017 il tema strategico: “il lavoro come speranza e dignità”. Continui a scrivere sul lavoro, lo faccia, lei che può, per i giovani sotto i trent’anni che vivono, di fatto, in un regime di para schiavitù, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo (io stesso le ho chiesto di non riportare in calce il mio nome e neppure la città, capisce come siamo ridotti?). Due casi: mia figlia, mia nuora.
La prima, laureata in Scienza dell’Educazione, ha lavorato per un anno in un istituto diocesano che cura handicappati (autistici, adulti), ha avuto contratti di durata variabile da una a quattro settimane, in pratica ogni venerdì sera scattava l’attesa per la conferma per il lunedì successivo. Quattro i turni (mattino-pomeriggio-sera-notte), in teoria programmati per una settimana, in pratica assolutamente casuali, per le frequenti variazioni, con preavvisi minimi. L’insoddisfazione era totale ma rimase, si mise alla ricerca di un nuovo lavoro.
Quasi un anno poi un’alternativa: maestra di asili nido di una cooperativa sociale. Le consegnano un telefonino per ricevere le loro chiamate, le impongono una disponibilità 7,30-17. Appena arriva la chiamata, partenza immediata, destinazioni diverse in provincia, entro 50 km. Le sue giornate si trasformano in un silenzio-attesa da Deserto dei Tartari. Questa reperibilità, che impedisce qualsiasi programmazione della sua vita sociale, è però retribuita: 25 € (lordi) al mese. A volte, l’attesa di chiamata si prolunga fino a 10 giorni. Imbarazzante parlare di “speranza e dignità del lavoro”, in queste condizioni: non un bamboccione, ma una donna di 27 anni, piena di voglia di fare.
Poi, sia benedetta, un’offerta da una scuola privata molto seria: 2 ore al giorno per 5 gg alla settimana (ben 10 volte di più di quanto l’Istat, nelle sue mitiche statistiche, indica come “occupato”). Impossibile campare facendo 10 ore alla settimana, tuttavia lei accetta, potrebbero esserci degli sviluppi evolutivi a medio termine, io la supporto. La vogliono subito, ma il suo contratto è a tempo determinato (9 mesi), con un preavviso di 45 gg. Come padre decido di pagare io il periodo di preavviso non fatto. Mi è stato sconsigliato: la Coop le avrebbe chiesto come penale l’equivalente di tutti i mesi non lavorati (6 in questo caso), quindi ha rinunciato. Riflettendo, convengo: può uno schiavo mettersi in rotta di collisione con il padrone, specie se è una Coop, dicono protetta?
La storia di mia nuora è meno articolata. Laureata, aveva aperto un negozio specializzato, la crisi le impose di chiuderlo, cercò un lavoro come commessa, nei settori ove aveva una consolidata esperienza. Vicina ai 40 anni, tutti la volevano, ma nessuno la poteva assumere, era fuori tempo massimo, salvo che accettasse i voucher. Accettò. Cambiato il clima politico sui voucher, l’azienda ha adottato una innovativa tecnica contrattuale a me ignota. Tutti i giorni il contratto viene rinnovato (“una sveltina”?), si sono pure inventati la firma digitale, per evitare la firma (fisica) giornaliera del contratto, forse una delicatezza per non farla sentire una detenuta. Per la stagione dei saldi, ha però avuto un insperato contratto: una settimana piena, senza obbligo di firma giornaliera. Con i contratti giornalieri salta la tutela del lavoratori per malattia: mossa geniale, seppur legale. Caro Ruggeri, denunci questa situazione di “caporalato legalizzato”, se ne parla troppo poco in confronto alla sua gravità. Con grande stima. S.”
Caro S, grazie a lei e a quelli che mi hanno scritto, ho capito meglio il jobs act, così la dottrina giuslavorista alla Pietro Ichino. Sono tornato ragazzo, mi sono immaginato le reazioni di Alcide De Gasperi, di Vittorio Valletta, di Giuseppe Di Vittorio nel leggere una lettera come la sua. Lei si vergogna di non aver firmato questa lettera per disteso, io mi vergogno del triste-tristo mondo al quale il ceo capitalism ci costringe.
Riccardo Ruggeri