Lo confesso, la caduta del Ponte Morandi ha prodotto in me uno sconvolgimento emotivo inatteso, continua, a un mese data, va e torna, mi fa compagnia ogni giorno. E mi porta a leggere tutto ciò che riesco a raccattare sul tema. E mi fa pensare, riflettere, mentre una rabbia sorda mi assale via via che acquisisco sempre più informazioni. Mi chiedo perché questo interesse profondo per il Morandi? E’ come se nel crollo avessi perso un congiunto, un amico caro. E’ come se fossi uno delle migliaia di sfollati che hanno perso la casa (e i piccoli ricordi, molto preziosi, proprio perché non hanno alcun valore di mercato). Mi ha colpito un operaio dell’età dei miei figli: il modello di cui Atlantia e il sistema bancario fanno parte, gli ha sì abbattuto la casa, sottratto sì il lavoro, ma al contempo gli lasciato in piedi le rate del mutuo. E i competenti ti spiegano che tecnicamente, secondo la legge, è giusto così, deve pagare. Che mondo strano, feroce nella sua gelida razionalità, eppure l’abbiamo costruito noi, giorno dopo giorno.
Fin da quando è avvenuto, il 14 agosto, ho avuto un’intuizione e una certezza-speranza. La certezza-speranza che questa volta il “modello” avrebbe pagato fino all’ultimo euro (almeno questo), l’intuizione che la soluzione era nel Contratto. Lì bisognava scavare, scavare. Noi dei media abbiamo l’opportunità di fare un lavoro di alto profilo professionale (mi permetto di chiamarlo servizio pubblico), muovendoci in tre direzioni: 1. Stigmatizzare i comportamenti del governo Conte qualora prevalesse l’idea idiota della nazionalizzazione (il sogno segreto di Atlantia?). 2. Continuare a scavare, in termini giornalistici, nell’enorme massa di documentazione sequestrata. 3 Stare, con garbo, con il fiato sul collo sia del Procuratore Francesco Cozzi sia del Governatore Giovanni Toti, e vicini alle famiglie dei 43 morti e delle migliaia di lavoratori e pensionati costretti a sfollare.
Espresso e La Stampa stanno impegnandosi molto per arrivare alla verità giornalistica. Fabrizio Gatti, ha trovato un interessante chiave di lettura per giungere presto alle responsabilità: “Il Morandi è caduto per colpa di una sigla: art. 2.2, lettera C5, Convenzione unica”. Da anni il Morandi stava degradando, la sigla indicava che era a pezzi, ma tutti rimasero fermi, si guardarono bene dal ripararlo una volta per tutte o abbatterlo, in ogni caso chiudere i caselli. Era evidente che il Morandi aveva bisogno di rimanere solo a leccarsi le ferite che incompetenza e disonestà gli avevano procurato.
Marco Grasso e Matteo Indice de La Stampa hanno trovato il verbale dell’Assemblea di Autostrade dove l’operazione viene definita non “impellente” ma “migliorativa”. Sembrerebbe lana caprina. Non è così, battezzarla “migliorativa” significava che cambiava natura, ora era foriera di uno “scomputo degli oneri dovuti da Autostrade allo Stato”. Gratta, gratta, torniamo sempre lì, alla privatizzazione, a “Il Business sarà il Contratto”. Ogni giorno che passa il diario del disastro si arricchisce di nuovi elementi, le carte dimostreranno quello che i cittadini hanno capito fin da subito: non è stata una fatalità. Dalla Riviera devo tornare a Torino, tante le uscite dalle infinite gallerie e l’imbocco di infiniti viadotti, chissà quante volte, durante il viaggio, il Morandi, come un lampo mi attraverserà la mente.
Una sola certezza: ne vedremo delle belle, però sono fiducioso, tutti i nodi torneranno al pettine. Una prece ai 43 morti. Sarebbe giusto non dimenticarli, sul Morandi poteva esserci ciascuno di noi.
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