Il caso “Serra-Amaca-Web” mi ha ringiovanito di quarant’anni, sono tornato a quando i muscadin ci chiamavano lumpenproletariat

Malgrado l’invito di molti lettori, con colpevole ritardo mi inserisco nel dibattito scoppiato sul Web sulla presunta caduta dall’amaca di Michele Serra. Lo faccio solo perché è intervenuto uno dei due giornalisti che apprezzo incondizionatamente, qualunque cosa scrivano: Stefano Lorenzetto e Mattia Feltri. Stefano ha taciuto, Mattia l’ha fatto, da par suo e in modo definitivo scrivendo: ”Vorrei tanto difendere Michele Serra (che è stato drammaticamente frainteso) ma non lo faccio. Ho paura di voi.” Sublime.

Non ho nulla da aggiungere, se non associarmi all’ironia di Mattia e tornare a quel 1968. Anche in questo caso l’analisi dell’oggi torna a quell’epoca. Avevo 33 anni, quindi come rivoluzionario ero fuori standard, ero un operaio, avevo due bambini di 6 e 4 anni, Lilli ed io lavoravamo duramente. Però eravamo felici e fiduciosi del futuro, sapevamo che l’ascensore sociale un giorno, inatteso, sarebbe arrivato al nostro pianerottolo, e noi saremmo stati pronti a salirci.
Una mattina, allo stabilimento Fiat di via Cuneo (a pochi passi c’era la casa di ringhiera di Gipo Farassino), dopo un paio d’ore dall’inizio del primo turno, un gruppo di esagitati, abbigliati in modo strano, di certo studenti universitari alto borghesi, ci obbligò con urla, spinte, calci (in culo) a uscire dalle officine e dovemmo inquadrarci, come pecore, in un corteo, con bandiere rosse e cartelli.

Apro una parentesi. Da come ci guardavano capii che noi operai per costoro eravamo i miserabili figli del lumpenproletariat: parlavano in nostro nome ma ci disprezzavano. La puzza al naso di allora non la perderanno più, così il disprezzo verso quelli diversi da loro, gli ignoranti. Ebbene sì, di sera ottusamente studiavo, leggevo, mi preparavo. Avevo letto i tanti volumi di Jules Michelet per capire la Rivoluzione francese, per cui mi fu facile bollarli come muscadin. Individui ridicoli che anziché studiare giocavano a fare una rivoluzione da operetta, in una continua fiera delle vanità. Quando, anni dopo, alcuni di costoro (molti) raggiunsero il potere politico, mantennero il linguaggio involuto, la spocchia, l’incompetenza, la comune mafiosità; solo il loro abbigliamento divenne alto borghese ma continuarono, seppur di nascosto, a profumarsi con il musc., come oggi. Volgarità allo stato puro. Chiusa la parentesi.
In via Cuneo organizzarono il corteo, avevano molti cartelli, essendo un liberale, mi inserii in quello meno ideologico: “Meno lavoro, più soldi” a cui uno della Fiom aveva aggiunto, in corsivo e a caratteri piccoli, un fiducioso “e più ciornia” (la traduzione dal torinese la trovate su Google). In piazza Castello, dopo aver urlato slogan contro il Prefetto, il corteo della “rivoluzione operaia pro ciornia” (come la chiamò un amico operaio purtroppo scomparso) si sciolse: era mezzogiorno.

Per me il mitico “Sessantotto”, fratello minore dell’ultra mitico “Ottantanove”, durò un giorno, quello. La giornata di lavoro persa (a fine mese Fiat mi fece la doverosa trattenuta), la mia porzione di urla, di spinte, di calci (in culo) l’avevo presa, sarebbe stata la prima di una lunga serie che durò un annetto. Eppure devo ringraziare quei quattro idioti alto borghesi, il Sessantotto rafforzò la mia fede liberale, facendomi capire il mondo e la politica. Anni dopo, grazie all’ascensore sociale pure io divenni élite, poi establishment, ma giurai che nessuno, neppure tronfi alto borghesi, mi avrebbe mai più preso a calci in culo. Oggi sono minoranza della minoranza di quelle élite figlie del Sessantotto, ma sono felice di aver fatto parte, allora, del lumpenproletariat. Mi pare di essere tornato a quei tempi: l’ignoranza e la supponenza regnano sovrane, ovunque. Più in alto che in basso? Più nei quadrilateri che nelle periferie?

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