Passano gli anni, si succedono le generazioni, in economia avvengono cose incredibili, lo scenario muta, tanti vengono penalizzati a favore di pochi, allora mi chiedo: perché i giovani non tentano neppure uno straccio di rivoluzione? Sono nel momento in cui le tempeste ormonali e quelle socio-emotive esplodono, eppure continuano a rifugiarsi, silenti, nei social, a farsi anestetizzare-violentare da Tim Cook, da Mark Zuckenberg. Capisco la mia generazione, della rivoluzione non ne ebbe bisogno, la guerra si era appena conclusa, un centinaio di milioni di persone erano morte, vincitori e sconfitti erano esausti, i primi riscrissero la storia, i secondi finirono di leccarsi le ferite, le fotografie di Hiroshima e Nagasaki vennero cancellate da quelle dei campi di sterminio nazisti. Quattro sfilate in via Po al grido “Trieste italiana!”, “Giù le mani dall’Africa!” e la mia giovinezza rivoluzionaria era già passata. E fu subito lavoro, tanto, di soddisfazione. Invece per loro il futuro è fosco, ormai lo stanno capendo, la loro maturità-vecchiaia sarà peggiore della loro adolescenza: inaccettabile. A prima vista, sembrerebbe essere tornati alla fine degli anni ’60.
Nel Sessantotto scelsi di essere spettatore, non mi fidai dei fighetti con l’eskimo, fu scelta saggia. La rivoluzione l’avevano concepita poeti, scrittori, intellettuali, sociologi, nessun operaio, nessun contadino. Gli unici rivoluzionari “operai” furono i cantanti: c’era il Vietnam, denunciavano la guerra, cantavano la pace. Credevano in un mondo nuovo, si masturbavano con Hermann Hess, Siddharta prese il posto di Topolino. Solo loro mi parvero autentici, gli altri alla sera tornavano nel XVI° Arrondissement.
Del Sessantotto mi restano alcune cartoline di Parigi. In Avenue Foche gli artefici del maggio francese cantavano le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan, inframmezzandoli con slogan politici. André Malraux, ministro della cultura del generale De Gaulle, osservandoli sfilare, li fulminò: “Morirete tutti notai!”. La rivoluzione sessantottina finì lì. Malraux non poteva prevedere che Bob Dylan sarebbe diventato premio Nobel per la letteratura (sic!) e la sceneggiata sessantottina 2.0 che ne sarebbe seguita. Tutti i sopravvissuti di quell’epoca (salvo il grande Leonard Cohen, che ci ha appena lasciato) non sono più persone, ma vecchietti travestiti da giovani, prigionieri dei loro personaggi (che tristezza). Come gli attori di Hollywood di oggi, vedove inconsolabili dell’imbarazzante Barack Obama, che si scambiano, in smoking, premi e cotillon, compiacendosi a vicenda (che tristezza). Di quel periodo mi resta solo l’immagine di Joan Baez, con la chitarra che le comprime il seno, l’immortale canzone “Here’s to You”, suoi i versi che Ennio Morricone divinamente musicò per il film sulla storia di Sacco e Vanzetti, mia mamma, anarchica, ci pianse.
Forse hanno ragione i giovani di oggi a non tentare neppure uno straccio di rivoluzione. Perché farla, si chiederanno, per quali ideali, con quali sogni? Piuttosto delle buffonate degli “occupy qualcosa”, o dei fighetti newyorchesi-californiani anti Trump, sono d’accordo con loro, meglio nulla. Ma che piaccia o meno, la rivoluzione incombe, più il modello “globalizzazione-tecnologie-uberizzazione” morde, più il pericolo aumenta. Per ora, la difesa attraverso il voto popolare anti élite sta funzionando (Brexit, Trump e altri a seguire), ma quanto potrà durare? E se il problema non fosse dei giovani, ma nostro? Noi vecchi siamo sicuri che non tocchi a noi farla, in nome e per loro conto? Noi, dai nostri vecchi ricevemmo sì la povertà, ma pure gli strumenti e i valori per arrampicarci sull’ascensore sociale che ci avrebbe portato dove meritavamo, diventare più colti, meno poveri, persino benestanti. Noi li abbiamo fatti nascere benestanti, ma che vita stiamo lasciando loro, quali prospettive? Niente ascensore sociale, poco lavoro, per di più miserabile, valori sfilacciati. Loro sono silenziosi, spesso a testa bassa, proni sul loro iPhone, con il pericolo per molti di diventare dei poveri zombie, mantenuti da un mix reddito di cittadinanza-gig economy. Da vergognarsi. Ma il dilemma rimane.
Riccardo Ruggeri