Fra Leopolda e Termini, il partito ferroviario si è fermato alla stazione più triste di Torino

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La parabola politica e umana di Matteo Renzi, partita da una stazione ferroviaria, grondante storia ed eleganza (la Leopolda), con il sogno di tornare presto nell’atroce Roma Termini, è arrivata nella stazione più sfigata di Torino (il Lingotto) e qui si è bloccata. Ripartirà? Faccio l’analista di politica con gli strumenti del business e del management, ogni tanto mi lancio in previsioni, spesso le sbaglio, come questa volta. Ero sicuro che Renzi volesse utilizzare la sconfitta al referendum per liberarsi definitivamente della sinistra e di tutti gli avversari interni, palesi e nascosti, come da tempo gli suggerisce la mente politica più raffinata che abbiamo, Giuliano Ferrara.
Renzi anni fa aveva costruito a tavolino uno storytelling che era perfetto per portare al potere il Pd, un vecchio arnese catto comunista, costruito a suo tempo per un leader-boiardo, come Romano Prodi. Renzi era stato brillante nel riverniciarlo e venderlo come un partito di centro con un occhio (cieco?) a sinistra, ma operai, contadini, autonomi, insegnanti, dopo le europee del 2014, dopo un’ubriacatura di slide (ridicole), capirono che era solo un Blair travestito da Clinton, decisero, turandosi il naso, di virare verso cinquestelle e leghisti. Da allora, i sinistri si sono allontanati dal Pd.

Ero certo che, dopo aver sopportato per tre anni il fuoco amico, Renzi si sarebbe costruito un partito fatto a sua immagine e somiglianza, il mitico partito della nazione, senza ipocrisie di alcun tipo. Invece no, dopo una sparata (impeccabile) su una sua visione di società aperta, globalista, anti sovranista, si è come spaventato, ha ripiegato su un “… d’ora in poi ci sarà maggiore collegialità”. A Torino, Marco Boglione (Robe di Kappa) gli ha dato un saggio consiglio “O non solo vince le primarie, ma le stravince, in caso contrario meglio farsi un partito personale”. Finalmente uno dell’establishment che ha il coraggio di dire la verità: Renzi deve decidersi, deve fare il partito dell’establishment. E invece che fa? Scopre le tre “r”: rilanciare, ripartire, restituire, verbi più “difensivi” che proiettati al futuro. Il Lingotto finisce con il “noi” in luogo del “tu”, strizzando l’occhio (cieco?) a Giuliano Pisapia.

Che dire del “nuovo” Matteo Renzi”? La miglior definizione l’ha data Christian Rocca “Culturalmente e ideologicamente Renzi è un liberale di sinistra, occidentale, solidale, anticomunista, antifascista”. Perfetto, ma oggi, nell’era dei social, chi può votare uno come Renzi se non l’establishment? Quanto vale in termini elettorali un partito di tal fatta? Che differenza c’è fra lui e Stefano Parisi? Saranno pure voti “pesanti” questi dell’establishment, ma valgono pur sempre uno, e se si spaccano ancora meno.

Per descrivere il nuovo leader incoronato al Lingotto (che poi è il vecchio Matteo Renzi), mi appoggio al mio mondo, quello del management, al quale i politici sempre più si ispirano. Ormai il giovin Matteo è, a tutti gli effetti, un supermanager, parla, si atteggia, si comporta come un David Serra, come un Oscar Farinetti. Costoro, a differenza di noi persone normali, non sono capaci di utilizzare entrambe le parti del cervello (creativa e razionale), ma sono bloccati, fin dall’università, sulla parte razionale. Questa focalizzazione li porta, a un certo punto della loro vita, a cessare di imparare, le critiche li infastidiscono, rifiutano i contradditori, si auto confinano nella “tenaglia” razionalità oggettiva-razionalità limitata. Li individui facilmente, appena cominci un ragionamento, ti bloccano con un “Ho già capito”, hanno una caratteristica rara, tipica dei soli dinosauri: non conoscono lo “strabismo”. Non esistono grandi leader non strabici, e le mappe cognitive in proposito sono implacabili. Anni fa, persino l’Economist sostenne che i leader strabici (e pure dislessici) sono il futuro. Noi manager lo sappiamo da quarant’anni.

Riccardo Ruggeri

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