A richiesta di molti lettori, il Cameo di oggi è dedicato a Sergio Marchionne e al presunto scandalo Fiat sulle emissioni. Voglio essere chiaro: nessun commento nel merito, trattandosi di materia molto tecnica, quindi opinabile. Mi concentro invece sulle implicazioni che potrebbero avere sulla strategia di Marchionne che, ricordiamolo, è al suo penultimo anno di consolato.
Lettori e amici conoscono la mia posizione: come italiano, come torinese, come ex Fiat, molto orgoglioso di esserlo stato, non amo il manager Marchionne, invece come investitore di Fca oggi, e ieri di Fiat-Chrysler, lo considero uno dei più grandi deal maker presenti sul mercato mondiale dell’auto, e non solo. E gli sono economicamente riconoscente. Da oggi, Ferrari vale più di Fca (dati Milano Finanza): il mercato non mente, mai, e vale più di tutte le seghe mentali di analisti, intellò, politici.
Consulto i miei appunti archiviati come “Detroit, 28 settembre 2015, Volkswagen-Fca”. Secondo l’agenzia Bloomberg dii allora lo scandalo dei motori diesel VW, e l’ammissione di colpa dei suoi vertici, avrebbero portato i regolatori, in America e nel mondo, ad aumentare target e misure di controllo, con conseguente aumento dei costi industriali dei produttori auto. Il già esistente conflitto tra il soddisfacimento delle linee guida sulle emissioni e i livelli di profitto richiesti dagli investitori poteva portare i produttori a scegliere la via di difendere le prestazioni del prodotto (causa i dispositivi di abbattimento delle emissioni, sarebbero aumentati i consumi penalizzando i clienti) percepita però dai regolatori come truffa (è stata la scelta di VW, potrebbero averla replicata altre case: la difesa delle quote di mercato giustifica ogni atto, anche i più osceni).
Ovvia la crociata di Marchionne di rispondere a questo scenario con la proposta di un riassetto degli asset industriali, attraverso fusioni fra produttori. Nello stesso tempo quelli del mestiere sapevano che nei cinque di anni di crisi post 2008 il mercato si è risistemato, consegnandoci un parco automobilistico “modernizzato”, il che, come sempre avvenuto nella storia, darà origine a una caduta dei volumi (in genere del 10-15%). La strategia del “consolidamento” elaborata da Marchionne non solo era corretta concettualmente, ma vitale per i suoi azionisti, loro sanno, noi lo sappiamo, che, scorporato il collier di diamanti purissimi (Ferrari), aver trasferito a Detroit il “focus aziendale”, ridotti gli stabilimenti italiani a “cacciavite”, Fca sarebbe diventata una parure di cristalli Swarovski.
Per Fca una soluzione doveva essere trovata, non poteva inacidire come zitella, diciamolo brutalmente: doveva essere venduta. Perché “consolidamento” significa che il più debole deve vendere, il più forte può comprare, ma alle sue condizioni. Essendo stato lui quello che aveva fatto la prima mossa, sapeva perfettamente il rischio di rimanere con il cerino acceso. Nel frattempo l’unico consolidamento lo si è avuto con la Opel in Peugeot (pessima mossa, a mio parere, per Peugeot), però alle condizioni imposte (garanzia dell’occupazione) da un terzo (sic!) la cancelliera Merkel. Poi più nulla. Il momento “magico” per Fca sarà mica passato?
Inutile girarci intorno, nel mondo dell’auto nessun paese degno di questo nome è disposto a perdere “occupazione pregiata”, quindi il consolidamento deve garantire che l’azienda mantenga nel paese sia i “cervelli” (leggasi le risorse di ricerca e di sviluppo) e dall’altro i livelli occupazionali pregiati, mentre le efficienze di organico, leggasi chiusura degli stabilimenti in eccesso, si facciano nei paesi terzi. Questo il motivo strategico per cui il processo non decolla. Questi paesi a chiacchiere sono liberali, ma nella sostanza la loro politica industriale è statalista e viene applicata con ferocia nell’esclusivo interesse del paese stesso, non certo seguendo teorie liberali che li penalizzano: è la politica, bellezza.
L’Italia da questo punto di vista “può stare serena”, è stata la prima (immagino sarà l’unica) a gettare la spugna uscendo dal club, per cui dal “grande gioco” dell’occupazione auto e componenti, lei è già fuori. A differenza di Detroit, Wolfsburg, Toyota, Torino è diventata una città della cultura. Come torinese mi vergogno, ma lo faccio in silenzio.
Riccardo Ruggeri