Franco è un amico, come si diceva un tempo, l’amico di una vita, pur essendoci frequentati solo saltuariamente da quando, quasi 45 anni fa, abbiamo lavorato insieme per un paio d’anni. A proposito del mio ultimo libro “Il Cancro è una comunicazione di Dio” , uscito in questi giorni, mi ha inviato una mail. In realtà è una meravigliosa, raffinata “recensione privata”. Scrive Franco.
“Quello che mi ha colpito è che il libro è uguale a quello che la linguistica chiama atto performativo: realizza quello che dice, descrive la cura ed è la cura. Tracce di questa doppia natura se ne trovano altre nel libro, che è prodotto e processo; nella tua storia, dove essere manager di successo e scrittore brillante non sono due fasi della vita, ma espressioni diverse di una stessa esigenza. Parli di rappresentazione teatrale: diventa automatico pensare al Pirandello della trilogia del Teatro nel teatro, dove gli attori rappresentano in scena quello che sono nella vita.
Dici che hai trattato la malattia come hai fatto con i problemi manageriali: configurare e poi espellere l’escrescenza. Non è quello che fai anche con i Camei? Non solo perché in ogni tua riflessione configuri un fatto, ma perché gestire un’azienda e scrivere sono entrambi sia esercizi di rigore logico e stilistico, sia modi di rapportarsi ad altri. Questa è la doppia natura del libro: continuare a raccontarsi agli altri proprio con la cosa che vorrebbe impedirmelo impossessandosi di me.”
Una notazione a margine. Visto che nel Cameo non avevo riportato il suo giudizio personale sul libro (“Per me questo libro è un piccolo capolavoro”) Franco me lo ha fatto notare. Così abbiamo superato il pudore intellettuale di entrambi.
Caro Franco è proprio così, esattamente così. Hai tratteggiato una delle più logiche chiavi di lettura del libro, quella che mi è più vicina. Una notazione: non avevo pensato a Pirandello. Il riferimento letterario l’ha colto Angelo Codevilla, leggendo, credo in contemporanea, le bozze del mio libro (che ha poi splendidamente tradotto in inglese) e la lunga analisi dell’ Idiota di Fyodor Dostoyevsky, di Gary Saul Morson, “The Idiot savant” su The New Criterion, (Vol. 36, n° 10, Maggio 2018). Ne consiglio vivamente la lettura.
Nel momento in cui prendo forse la decisione più importante della mia vita delegando, in modo totale e assoluto, ai professori Dario Fontana e Umberto Ricardi il problema Cancro, cioè delegando loro la mia vita, ma trattenendo per me lo stile di vita, se vogliamo dirlo in termini manageriali, delego loro la responsabilità del “risultato”, trattenendo per me il “processo”, in quel momento forse non divento Ippolit Terentiev, ma mi configuro come lui.
Nell’Idiota costui è un personaggio secondario, ossessionato dalla sua morte imminente per tubercolosi (il Cancro dell’epoca). Ippolit è molto teso, preoccupato, alla fine esprime l’idea, chiaramente non sua ma di Dostoyevsky, che la vita possa essere significativa e felice solo se la si intende come processo, e non come prodotto, il cui finale è banalmente scontato. Immagino che si plachi. Ma la sua intuizione, grazie al suo creatore, assumerà una dimensione perenne.
Immediato il parallelo con Cristoforo Colombo. Era felice non quando si accorse di aver scoperto l’America (oltretutto lui pensava all’India) ma quando la stava scoprendo. Il massimo di felicità Colombo l’ebbe tre giorni prima di vedere terra, quando la parte ribelle dell’equipaggio voleva invertire la rotta e lui li convinse a continuare, invitandoli a rispettare il processo, che insieme avevano definito al momento dell’ingaggio. Colombo morì senza quasi sapere cosa avesse scoperto, ma sapeva che il processo (la sua vita) era quello giusto.
E’ la vita che conta, solo la vita, cioè il processo eterno e perpetuo di scoperta, non la scoperta in sé.