Ho appreso della morte di Cesare De Michelis per un Cancro con profonda tristezza. Da quando ho saputo di averlo anch’io uso la maiuscola: vorrei che il Cancro fosse riconosciuto come uno al quale Dio o la Natura (una scelta personale questa) ha affidato un compito sgradevole, ma necessario. Dopo che ognuno di noi ha avuto la sua chance di vita, se vogliamo, e dobbiamo volerlo, che questa si riproduca all’infinito nei nostri figli e nipoti, lo può fare solo attraverso la morte. Per questo insisto tanto sull’execution, senza di lei non c’è vita.
Dallo splendido articolo scritto dal mio grande amico Stefano Lorenzetto sull’Osservatore Romano di sabato (“L’uomo dai centomila libri”), riporto la frase finale che accomuna Cesare a noi due. Un mese fa, Stefano gli consegnò il libretto “Il Cancro è una comunicazione di Dio” con tanto di mia dedica, lui sbuffò: “Non lo direi mai, il cancro è molto più banalmente una degenerazione delle cellule”.
Mi sarebbe piaciuto dirgli che tecnicamente aveva ragione lui, ma filosoficamente forse aveva torto. Pur certo che Dio esistesse, Cesare era convinto che Dio non si occupasse di noi. Secondo me, Dio si occupa di darci la vita, la fine fa parte del nostro libero arbitrio, perché ci è stata delegata. Nel mio caso, Dio non mi ha mica detto quando morirò, mi ha semplicemente comunicato che molto probabilmente sarei morto di Cancro. Quando, come, dove, lo scoprirò al momento giusto. E io non ho fretta. Ma io so. Il Cancro non è una banale degenerazione di cellule, com’è in effetti il cancro degli animali, ma entrando in noi diventa sì un intruso, ma in quel momento assume una dimensione umana, diventa parte di noi. E allora dobbiamo riconoscergli una sua dignità perché si palesa in lui un mostruoso conflitto d’interessi con noi. Lui muore con noi, quindi, è noi.
Quando finii di scrivere questo libretto, Stefano mi propose di farlo editare da Marsilio, gli dissi subito no, perché questo titolo Cesare non me lo avrebbe mai passato (avevo ragione). Come non mi passò “Fiat, una storia d’amore, finita”, mentre mi inchinai al suo titolo quando pubblicò “America, un romanzo gotico”. Però, mi sarei abbandonato a lui quando sarebbe stato pronto il mio prossimo, e ultimo libro, quello sul Ceo capitalism.
Sapendo che non avrebbe condiviso la mia feroce analisi, ero certo che, a maggior ragione, l’avrebbe pubblicato, e avrebbe trovato l’unico titolo giusto. Perché ogni libro ha un solo titolo, quello che gli compete, il suo. E mentre un grande editore lo scopre quasi sempre, l’autore quasi mai.
Cesare è stato, senza dubbio, il più grande e geniale editore di questo ventennio. Mi lancio in un parallelo avventuroso: se l’editoria fosse come il Palio di Siena, Cesare sarebbe stato il fantino del cavallo di rincorsa. E avrebbe vinto il Palio, non mollando mai la testa. Così è stato.