L’amico Giuliano Ferrara ieri ha scritto per Il Foglio un pezzo sulla Verità. Lo confesso: il fascino intellettuale che egli esercita su di me è talmente alto che soffro di una vera e propria sudditanza psicologica, come certa classe arbitrale ha verso certe squadre di calcio, certa magistratura americana verso certi criminali in felpa di Silicon Valley e di Wall Street. Immagino che, se fosse vivo, sarebbe la stessa cosa verso Giuseppe Prezzolini, mio maestro, grazie al quale sono invecchiato bene, da sereno apòta.
Giuliano sostiene un concetto che condivido in pieno: «Un giornalista dice la Verità (grazie per la maiuscola, ndr) solo quando ammette di aver trattato i fatti secondo le proprie idee». Sono esattamente le stesse parole che Maurizio Belpietro e Stefano Lorenzetto mi hanno detto illustrandomi la linea editoriale di questo giornale.
Su un solo aspetto non riesco a seguire Ferrara, ed è dal 2008 che purtroppo lo ripeto, in splendida solitudine: sostengo che nel mondo occidentale il potere non è più dei politici ma dei manager, quelli sono i nemici di noi liberali veri. E, secondo me, non potrebbe essere diversamente, ai tempi della Grande Crisi vale solo il volgare «articolo quinto», basta sostituire «grano» con «cassa».
Sono nel campo dell’editoria e del giornalismo da meno di un decennio, so di essere in questo settore un parvenu. Ma ho avuto ora conferma, vivendoci, che nulla è cambiato rispetto agli anni Ottanta e Novanta, quando ero, insieme ad altri cinque compari, nella stanza dei bottoni – locuzione orrenda, l’ho usata solo per contestualizzare il racconto – di Fiat holding.
Ho assistito a curiose telefonate fatte a poveri editori puri (suggerirei di togliere «puri», nel mondo del business esiste solo una feroce gerarchia di impurità). Ho vissuto episodi da scompisciarsi dalle risa: quello che, ancora prima di sentirsi chiedere la rimozione del giornalista Tizio o Caio, se ne usciva con un «dottore, volevo chiamarla io per scusarmi e per dirle che ho già provveduto»; quello che ascoltava silente, confermava d’intervenire, ma cercava di avere qualche contropartita, usando però espressioni delicate, con infiniti incisi. Il mio preferito resta un tale, molto ricco; la nostra richiesta d’intervento era strutturalmente debole, non c’erano i presupposti minimi per un provvedimento, il nostro potere di pressione su di lui nullo. Ma capitolò subito quando gli fu detto: «Possiamo darci del tu?». Potere allo stato puro.
Chiudo con una notazione personale. Nel mio primo Cameo sulla Verità ho chiarito che la mia casa editrice è entrata nell’azionariato con una piccola partecipazione (non «opaca», visto che Grantorino libri per statuto dà in beneficenza i suoi ricavi) e il rapporto con Maurizio Belpietro, direttore, si basa su un accordo verbale, «io ho una linea editoriale mia, nessun compenso, nessuna censura», con stretta di mano telefonica. Atto mutuato dai protocolli del Foro Boario di Carrù.
Una chicca. Mentre stavo scrivendo questo pezzo, un lettore (P.B.) di Mondovì mi ha invitato a scrivere un Cameo sul mondo che gravita intorno a Carrù. Lo sai, Giuliano, che nella provincia di Cuneo tutte le transazioni dei bovini avvengono ancora, senza algoritmi, senza piattaforme californiane, ma con maschie e nodose strette di mano? E soprattutto ancora in lire, mai in euro. Un abbraccio.
Riccardo Ruggeri