La risposta alla demografia calante non è solo l’immigrazione crescente

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Sull’immigrazione i talk show, quindi la politica, sono bloccati su posizioni inconciliabili: due le domande che i “buonisti” (establishment, detti globalisti) e i “cattivisti” (sovranisti, detti populisti) si scambiano a mò di clava. Ai primi “Allora vuoi farli affogare tutti?”, rispondono i secondi “Allora vuoi farli entrare tutti?”. Due ore di insulti reciproci, poi il talk chiude, domani si ricomincia. Il format è fisso sul Canale di Sicilia, nessuno cita il modello spagnolo Ceuta-Melilla (muri di filo spinato), e il ben più disgustoso modello Merkel-Erdogan (rifugiati in campi di concentramento gestiti da kapò turchi in cambio di montagne di euro). Chi non è né globalista né sovranista, o è entrambi, come me, preferisce tacere. Personalmente sono convinto che sia in corso una guerra strisciante, una guerra civile, combattuta né con le armi, né con i forconi, ma con le chiacchiere. Siamo divisi su tutti i temi irrilevanti, per quelli importanti produciamo solo ideologia, niente execution. Guerra civile fra poveracci.
Sul tema immigrazione ho scelto una nicchia, scrivo Camei dove non si capisce quando finisce l’analisi seria e quando comincia un sorridente divertissement, sto ai margini dei problemi, visto la pelle sottile che si ritrovano Coop (bianche e rosse) e Ong, molto occhiute e aggressive, qualsiasi cosa tu dica, specie di buon senso, sbagli.
Così mi sono inventato un modello-divertissement giapponese, talmente tecnologico che prescinde dai migranti, quindi dovrebbe essere esente da aggressioni verbali. Imparai a conoscere quel mondo anni fa, seppur filtrato attraverso il business e il management. Il Giappone era come l’Italia, pochi grandi gruppi, per il 90% piccole e medie aziende. Il nord Italia, specie quello delle periferie povere, delle valli alpine, delle pianure venete aveva molti punti in comune con il Giappone su un tema che sarebbe diventato strategico: quello dei migranti. Se ne parli con un giapponese della classe media o operaia, a parte la ritrosia a farlo, ti pare di essere in terra leghista. A differenza dell’Italia, terra di conquista, il Giappone è da sempre gelosissimo della propria identità e pratica un isolazionismo fermo. Tutto ha funzionato fino a quando la demografia li ha aiutati, ora non più, anzi, le previsioni indicano che nel 2060 la popolazione passerà dai circa 130 milioni di oggi a 90, dei quali il 40% avrà più di 65 anni. Che fare? L’establishment vuole aprire all’immigrazione, il popolo no. Ecco la mia idea, nessuna ricetta sia chiaro, un divertissement. Per mantenere la purezza isolazionista si continui nel rifiuto all’ingresso e si “costruisca” la mano d’opera necessaria, cioè robot umanoidi e software basati sull’intelligenza artificiale, in luogo di lavoratori non più disponibili.
Come riferimento tecnico prendo Izumo Co., produttore di componenti di gomma a Kadoma. Siamo nel centro della “cintura della ruggine” di Osaka, problemi di inquinamento e pieno impiego, quindi non si trova mano d’opera disposta a lavorare in queste condizioni ambientali. Per sopravvivere l’azienda dovrà ridisegnare il suo modello di business con utilizzo esclusivo di robot (giapponesi) e riciclare gli operai in supervisori-manutentori. La religione del pieno impiego sarebbe così garantita, nessun operaio diretto è necessario, via via che gli operai invecchiano arrivano giovani pimpanti robot.
Con questo modello si garantisce la piena occupazione autoctona (sereni i sindacati), grazie all’indipendenza tecnologica di robot e software a intelligenza artificiale che fungono da “fisarmonica sociale”, ergo niente gig economy, niente uberizzazione della società, niente reddito di cittadinanza, massima occupazione, massima dignità del lavoro. Nessuna implicazione sui rifugiati da guerre che il Giappone accoglie ai sensi della Convenzione di Ginevra. I globalisti sono contenti per l’automazione, l’efficienza, la competitività sui mercati, così i sovranisti (meglio i robot degli islamici). La locuzione fighetta “E’ un esodo biblico, problemi complessi richiedono soluzioni complesse” è affossata dalla ben più tangibile “Per ogni problema c’è sempre una soluzione”. Prosit.

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