Ogni volta che “il terrorismo islamico” (locuzione limite ammessa dal politicamente corretto) colpisce, entro in una triplice crisi. Appena l’evento avviene, il dolore e la tristezza verso le vittime hanno il sopravvento, poi per due o tre giorni mi assale una profonda depressione, mi rifiuto di parlarne, peggio scriverne, e aborro leggere le solite banalità che noi della stampa scriviamo, imbarazzanti copia-incolla. Poi, torno in me (la vita continua) e allora mi monta la vergogna di far parte delle élite di questo paese. Noi abbiamo il diritto di suicidarci, ma dobbiamo condividerlo con tutti i nostri concittadini, mettendo in conto che molti di loro potrebbero invece voler combattere il terrorismo islamico.
Al di là delle parole usate e del luogo a cui si riferisce, questo Cameo è identico a quelli scritti per Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra. Oggi siamo sulle Ramblas, un viale leggermente ondulato, dalla pavimentazione che ricorda i flutti marini. Il solito furgone d’ordinanza, affittato dal solito “terrorista islamico” (o come hanno detto a caldo i colti: “Sono solo ragazzi”), entra dalla rotatoria di Plaça de Catalunya, arriva alla fontana di Canaletes (chi si abbevera a questa fonte tornerà ancora e poi ancora a Barcellona), comincia a mietere vittime. Qua prende velocità, procede a zig zac per ottimizzare la morte, arriva fino alla piazzetta della Boqueria, al Teatro del Liceu, per fermarsi sulla Rambla del Caputxins, si palesa il mitico mosaico di Joan Miró. Sarà l’immagine simbolo della strage di Barcellona?
Ogni volta gli intellò nostrani trovano la locuzione perfetta per esprimere il loro sdegno, attraverso una declinazione della prima stazione di questo rosario ex post, quella dell’ormai dimenticato Charlie Hebdo. Ricordate? In quei giorni tutti uscivamo di casa, convinti di essere eroi, declamando “Non ci faranno cambiare il nostro stile di vita”, alcuni radical chic volarono (low cost) a Parigi solo per cenare all’aperto, sfidando il “terrorismo” (per prudenza avevano già dimenticato “islamico”). Guardavamo commossi François Hollande, mano sul cuore, occhio spento, cantare a squarciagola la Marsigliese. E poi, dimenticato “Je suis Charlie”, arriva il francescano “Non avranno il mio odio”, e via via fino al recentissimo slogan di Xavier Vidal–Folch: “La morte ha i nostri occhi. Non avrà mai i nostri cuori”. Se posso, è talmente barocco da suonare falso: pare mutuato da Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Ma questa era poesia d’amore, seppur infranto, non sociologia d’accatto.
Perché mi vergogno dei miei colleghi delle élite? Perché non accetto questa lamentazione post: le élite sinistre danno degli sciacalli ai destri e questi contrattaccano con linguaggi inaccettabili. Lo scenario è noto fin dal 2003 (Tolosa) ed è andato peggiorando. E noi che facciamo? Nulla, deleghiamo tutto a quattro gatti dell’intelligence. Dice Peter Regli, ex capo del servizio informazioni svizzero: “In un paese democratico è impossibile controllare le migliaia di persone riconosciute come jihadisti: per una copertura totale occorrono 25 agenti a cranio. Solo paesi canaglia come Cina, Iran, Arabia Saudita, Turchia, etc. possono farlo”. Tutti paesi con i quali noi fornichiamo spensierati.
Lo si dica a reti unificate una volta per tutte, alto e forte: “Noi élite abbiamo paura degli islamici devoti alla Sharia”. Nulla di male, abbiamo scelto di vivere questi eventi come fossero fenomeni naturali, tipo il terremoto. Ci siamo convinti che per mantenere il nostro mitico stile di vita (quello del vivere low cost) dobbiamo rassegnarci. Come ovvio la rassegnazione è l’ultima stazione prima del capolinea, dove potrebbe esserci la sottomissione. L’importante è saperlo, e non mentire a noi stessi.
Se la maggioranza di noi lo vuole, disciplinatamente mi adeguerò, chiedo solo che “Non avranno il mio odio” o corbellerie simili ognuno le reciti in privato. Io non le sopporto più.