Nel mondo attuale gli scontri fra leader hanno sempre un che di dè jà vu. Mi ricordano i “gallodromi” filippini o sudamericani, grande sfarfallio di penne e mulinelli di rostri. I duelli a distanza Renzi vs D’Alema sono come quelli Marchionne vs. Mary Barra, come The Hillary vs. The Donald, il primo vuole abbattere il secondo e si stupisce della sua resistenza. Ci conferma che politica e business sono simili, sempre sangue e merda sono. I media sono il loro “gallodromo”, l’aspetto più divertente per un apòta come me, è lo spettacolo, non chi vince (in genere lo si sa già, stante la presenza di allibratori spesso corrotti).
Ad esempio, il nocciolo dello scontro Renzi vs. D’Alema, prima di essere politico, è organizzativo, quindi di governance. Immaginate il PD come una società quotata, quando si verifica questo tipo di scontro fra azionisti, quelli di minoranza non hanno altra opzione strategica di farsi buttare fuori da quelli della maggioranza, negoziando per le proprie azioni un prezzo superiore al valore di mercato di quel momento. Scambi potere con quattrini, lasciamo perdere paroloni tipo ideali, nobiltà della politica, politica come servizio. Costoro sono come noi, se così non fossero non li eleggeremmo.
D’altro canto, D’Alema ha capito che le due strategie messe a punto dagli azionisti della minoranza PD, versione Fassina-D’Attorre-Cuperlo ovvero versione Bersani-Speranza, con un cinico come Renzi erano fallimentari. La prima prevede di andarsene con grande dignità, quindi senza contropartite, la seconda di rimanere ma indietreggiando, fino alla scomparsa. Rispetto a costoro, D’Alema, neppure più azionista, possiede intelligenza e skill di ben altro spessore, e ha capito che queste strategie, seppur etiche e politicamente corrette, non avevano prospettive, allora ha deciso di abbandonare lo status di rottamato (e se fosse stato rottamato male?) e di farsi leader di un nuovo progetto, che chiamerei “strategia del ritorno allo status quo”. Speranze di successo nessuna, ma lui ci tenta, scommettendo su un Renzi anatra zoppa.
In fondo, l’Establishment al potere cosa vuole dai suoi maggiordomi politici? Un modello che protegga lo status quo, ove loro campano, da cuscute, fin dal ’47. Il loro modello è sempre lo stesso, un tempo lontano si chiamava “Pentapartito”, poi “Convergenze parallele”, ora “Partito della Nazione” e tutti gli altri confinati nello “zoo dei populisti” (ieri dei “comunisti”, l’altro ieri dei “fascisti”). Gli intellettuali, i poteri intermedi, la stampa di regime, con motivazioni e accenti diversi li supportano, tutto qua. Di diverso c’è la strategia, ma questa è identica per tutto l’Occidente, e connaturata al modello del ceo capitalism, io la sintetizzo così: “impoverire la classe media, sedare la classe povera”. Questo lo schema di riferimento.
D’Alema ha sfruttato l’errore, gravissimo, di Matteo Renzi di personalizzare una banale elezione, come un referendum incomprensibile ai più (molto simile a quello delle trivelle), oltretutto senza la necessità di quorum, che, nel suo interesse, avrebbe dovuto svolgersi nel silenzio più assoluto. Renzi è un personaggio curioso, soffre in politica dello stesso bisogno fisico di John Kennedy (e pure di Benito Mussolini): fare ogni giorno una sveltina (nella Stanza Ovale il primo, nella Sala del Mappamondo l’altro). Per Renzi la sveltina non è sessuale ma solo comunicazionale, con le più diverse modalità. La sua grande idea del Partito della Nazione era la solita: fare una politica economica di destra (e di sinistra sui diritti civili) con i voti del vecchio corpaccione della sinistra ex PCI, ex DS, ex Ulivo, ora PD, liberandosi dei corpi intermedi come i sindacati, ma non dei loro voti, raccattando a destra tutto il possibile. Riuscirà? Fallirà? Vedremo.
Il quesito è: Matteo Renzi, non avendo più la forza di fare una OPA (offerta pubblica di acquisto), avrà il coraggio di ripiegare su una OPAS (offerta pubblica di acquisto e scambio) su Forza Italia e su NCD? Non lo so, e non mi lancio neppure in previsioni idiote.