Se per i fruitori dei talk show fossero in uso i protocolli dell’aviazione civile, cioè di connotare ogni pilota con le sue ore di volo, mi piazzerei fra i primi in classifica. Copro il 100% di quelli della La7 (i tre mattutini, Tagadà dopopranzo, tutti quelli della sera, a partire da Otto e mezzo), Matrix dell’amico Nicola è fisso, così alcuni della Rai. A proposito, in questo Cameo userò solo i nomi di battesimo dei personaggi che gravitano intorno alla nostra giostra, perché sono talmente entrati nella mia vita che li considero amici, spesso senza conoscerli di persona, e ai quali, lo dico con sincerità, mi sono affezionato (svolgono un ruolo utile per la comunità, come conduttori, come ospiti, come pungiball ).
Ho raggiunto ormai, non per mie particolari qualità, ma solo per le “ore di volo” consuntivate, una certa sensibilità (animalesca) nel percepire mutamenti nell’impatto della comunicazione a due vie sul contesto politico, utilizzando il talk come mezzo principe di comprensione.
Per esempio, noto come, dopo lo sbrago comunicazionale dei tempi berlusconiani e di quelli renziani, con la sovrapposizione delle voci, oggi l’interruzione sistematica dell’avversario ancora prima che completi la frase chiave del suo pensiero non è più ammessa. Siamo passati dai tempi mitici ove Daniela e Maria Teresa erano riferimenti brillanti delle due corti-chiese, ai tempi sofferti di Renato o del duo Gennaro-Andrea, chiamati a difendere la fase morente delle due culture dominanti. Dopo il No, gli uni li vedo disperati, gli altri terrorizzati da Salvini, eppure io, umanamente, li stimo più di prima, perché la sconfitta li ha resi come noi.
Mentre Marco, con il piglio del magistrato laico aveva demolito televisivamente, in pratica da solo, il berlusconismo (ho sempre pensato che Michele fosse la sua spalla), Maurizio e Giova (questi avvalendosi di un pezzo da novanta come Massimo: il licenziamento gli ha giovato) hanno spazzato via il renzismo, attraverso La7. Al punto che, scomparso Renzi, non sentiamo neppure più nostalgia di Maurizio, genialata del (mio) presidente Urbano Cairo: liberarsi di un costo nel momento in cui cessa il ricavo. Ovvio, la mostruosa presenza del primo (h24 come dicono i colti) ha addirittura spento il secondo, per eccesso di materiale satirico inevaso.
Dopo il 4 dicembre 2016, noi della stampa abbiamo ritrovato l’aplomb che avevamo, chi più, chi meno, perso nei 34 mesi del consolato renziano. Ora siamo più sciolti, Paolo è stato il primo a sfilarsi sostenendo che l’ex premier doveva “saltare un giro”, l’infortunio di Luca, sfiorato da un sospetto terribile (nel suo caso è stato come togliere il cognac dalla fiaschetta del San Bernardo), ci ha raddrizzato di colpo la colonna vertebrale, la liberà di stampa è tornata a essere la nostra religione, silenti gli editori, tutti abbiamo fatto nostra (sottovoce) la mitica esclamazione di liberazione di Oscar: “Bastaaaa!
Non Renzi, ma Brexit ci aveva già fatto perdere Beppe, impegnato in una sua traversata solitaria del deserto: deve convincersi che ormai i leader anglosassoni hanno le fattezze grezze di un Donald, non i languori di un Barack. Il cerino acceso è rimasto al migliore di noi, Fabrizio.
Mi resta da decodificare un “segnale debole”. Noi dei media avevamo una grande opportunità, attraverso un commento approfondito della (pseudo) autocritica di Matteo Renzi fatta a Ezio, fare noi un’autocritica su come ci siamo comportati in questi 34 mesi di osceni eccessi verbali e di scrittura prona.
Oltre tutto, non si può neppure definire autocritica, perché lui nella vicenda si arroga il ruolo dell’io narrante e non dell’io sconfitto. Infatti dice “noi abbiamo straperso”, in realtà ha perso solo lui. Poi implicitamente invita all’autocritica non solo i Sì, ma anche i No, che secondo il suo contorto pensiero, hanno perso l’occasione di dire Sì. In questo senso è corretta l’analisi di Miguel Gotor (meraviglioso De Luca quando ne pronuncia il nome): “L’autocritica di Renzi sembra quella di Fonzie: io ammetto i vostri errori, voi chiedete scusa”. Questa meravigliosa analisi-sintesi doveva farla uno di noi, non Gotor. Riconosciamolo, abbiamo toppato, tutti. Ma ci rifaremo.
Riccardo Ruggeri