Adriana Dadà ha scritto un libro molto bello La Merica (Morgana Edizioni), sottotitolo: Bagnone, Toscana, California, Usa. Donne, uomini che vanno e che restano. Bagnone, Lunigiana, qua sono nati e vissuti i Ruggeri, braccianti agricoli. Lassù in cima, c’è l’Alpe delle Tre Potenze, confine fra il Granducato di Toscana, il Ducato di Modena, il Ducato di Lucca. Al di là del crinale c’è la Garfagnana, Magliano, gli avi di parte di mamma, i Contipelli, braccianti agricoli. Tutti emigreranno, mio nonno in Francia, poi a Torino, il ramo garfagnino in California. Come tanti altri italiani siamo stati emigrati, semplicemente per mancanza di lavoro, come il 90% di quelli che arrivano oggi in Italia. Estraggo dal libro la storia di una donna di Bagnone, che mio nonno certamente avrà conosciuto, essendo sua coetanea. Questa storia ci fa capire come il problema dell’immigrazione sia insito nella civiltà umana, e come nel passato possiamo trovare le soluzioni al presente e al futuro.
E’ il marzo 1907, Carmela Luigi, chiamata dal fidanzato Luigi Barbieri, lascia Bagnone, parte per la California. Va a Genova in treno, quindi raggiunge il porto di Le Havre; con un altro piroscafo, attraversa l’Atlantico, arriva a New York, si sottopone ai durissimi controlli sanitari e amministrativi di Ellis Island (l’isola delle lacrime) e li supera. Poi, in treno coast to coast, arriva in California, a Weed, un pugno di case in mezzo ai boschi, ai piedi del monte Shasta, fondato dieci anni prima da Abner Weed (diventerà ricchissimo e pure senatore). Qua Carmela sposerà il suo Luigi, avrà sette figli, creerà una boarding house per uomini senza famiglia, accudendoli (cibo e pulizia personale). La sua abilità nel fare il pane e il Pan di Spagna, tutti cotti in un forno a legna mutuato da quello di Bagnone, la porterà a essere un riferimento per la comunità. Il 26 marzo 1986, il Weed Press riporta la notizia dei suoi 100 anni, ricorda che Carmela è una donna che con il lavoro ha fatto grande la città. Gli auguri del Presidente Ronald Reagan chiudono una giornata memorabile.
Trovo intellettualmente disonesto paragonare l’immigrazione (mi riferisco all’immigrazione economica) che abbiamo sotto gli occhi oggi, in Europa e in Italia, con quella degli italiani del primo novecento in America. Quella aveva i presupposti basici (la gestione) per potersi definire immigrazione: a) offerta di un lavoro; b) autorizzazione dei due Paesi interessati che applicavano protocolli concordati; c) pianificazione del viaggio; d) inserimento in un tessuto sociale esistente; e) integrazione attraverso il lavoro; f) rispetto delle leggi e della cultura del luogo di residenza. Interessante osservare la copia fotostatica del “passaporto per il solo rimpatrio” rilasciato dal Consolato Italiano di San Francisco, in nome di Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, con nel retro le raccomandazioni. “Si avvertono i nazionali che per fruire della tutela e dei favori previsti dalla legge sull’immigrazione, essi, volendo recarsi in America, devono prendere imbarco su un piroscafo per emigranti, con biglietto rilasciato in Italia da uffici autorizzati. Occorre che gli emigranti rifiutino ogni proposta di Agenzie stabilite fuori Italia, tendente ad attirarli all’imbarco in porti stranieri, perché, accettando, andrebbero incontro a gravi inconvenienti, spese maggiori, mancanza di protezione a bordo da parte di Commissari governativi”.
I nostri politici è un decennio che ci presentano l’immigrazione come un fenomeno epocale, solo perché sono incapaci di risolvere un problema che il mondo, ciclicamente, ha sempre avuto e risolto. Si nascondono dietro l’insopportabile locuzione “problemi complessi richiedono soluzioni complesse”, un falso, storico e intellettuale. I leader devono affrontano i problemi seguendo il principio che qualsiasi problema ha una soluzione e tempi ragionevoli. Il protocollo di cui sopra, del quale si avvalse Carmela Luigi nel 1907 (nella traversata atlantica c’era persino un Commissario di bordo italiano garante!), fu concordato dal governo regio di Vittorio Emanuele III e dal Presidente americano Theodore Roosevelt. Sarebbe un modello che potrebbe valere anche oggi, se si depurasse la politica dalle ideologie. E se al potere vi fossero statisti, e non politicanti.
Riccardo Ruggeri