Ho ascoltato in successione e in diretta da Davos: 1 Paolo Gentiloni (atto dovuto). 2 Emmanuel Macron (un markettaro imprestato alla politica). Angela Merkel (trattandosi di una signora, mi limito a dichiarare una grande nostalgia per Helmut Kohl). 4 Donald Trump (è rimasto lo scaltro buzzurro della campagna elettorale). Un amico presente mi ha dato qualche dritta sull’atmosfera rarefatta che si percepiva a Davos, e la spaccatura sotterranea fra le élite.
L’anno scorso avevo dovuto sorbirmi le buffonate finto capitalistiche di Xi Jinping e avevo concluso: la globalizzazione selvaggia ha reso noi occidentali intellettualmente dei servi, se siamo ridotti ad ascoltare rapiti un autocrate che ha compiuto ogni tipo di nefandezze in termini di diritti umani e di diritti delle donne (bambine in primis), seguendo il modello comunista criminale del grande timoniere Mao, suo degno predecessore.
Il discorso di Donald Trump è stato diretto e chiaro. Chi è che blatera di più di libero mercato? Cina e Germania che verso l’America godono di un interscambio commerciale positivo di 350 e 60 miliardi di $. Una domanda banale. Immaginiamo che i due dati fossero invertiti, come si comporterebbero Xi e Angela? Non hanno capito che il cliente, personaggio chiave del Ceo capitalism, se non è un poveraccio ma un ricco, ha sempre il coltello dalla parte del manico?
E poi, era ora che ci fosse qualcuno che facesse capire all’altezzoso Mario Draghi che un’epoca è finita. Non gli piace l’America di Trump, come osa dire in pubblico facendo sorridere gli analisti servi in platea? E allora spari il suo bazooka ad alzo zero, tanto i suoi proiettili sono di gomma e i suoi muri di carta straccia. Lo saprà che Trump può manipolare il cambio e la Bce no?
Lor signori avranno capito che in Trump c’è una componente geopolitica dietro alla volontà dichiarata di contenimento commerciale di Cina e di Germania, sulla quale convengono silenziosamente sia il Giappone che la Russia. Il tentativo di dominio del mondo di Cina e Germania (con Francia al seguito) è inaccettabile.
Se fossi un operaio americano starei con Trump, così se fossi uno della fascia bassa della classe media, ma pure se fossi un Ceo o un imprenditore (non di Silicon Valley), starei con lui. Così se fossi un investitore internazionale, non perché mi piaccia, ma per puro interesse. Trump è stato chiaro: “Sono qui per fare gli interessi degli americani, come mi aspetto facciano i leader degli altri paesi”.
Sergio Marchionne, uno sveglio, in neppure 24 ore ha fatto un’inversione a “U”, chiudere in Messico, e tornare in Michigan, e grazie agli 800 milioni regalatagli da Trump ha dimezzato il debito di Fca e ha distribuito 2.000 $ a ogni operaio americano. Il circolo virtuoso management-dipendenti di matrice trumpiana si è compiuto.
Se l’establishment liberal mondiale, punte di diamante Nyt e Washinton Post di Jeff Bezos, non riescono a fare in fretta l’impeachment, Trump se lo terranno per otto anni e Paul Krugman passerà alla storia, non per il Nobel, ma per il mitico “The Economic Fallout” al quale ha risposto Wall Street seppellendolo, dopo appena un anno, con rialzi mostruosi. E questi sarebbero i competenti?
Gran finale dello spazzaneve Trump. Globalizzazione selvaggia? “America first non significa America da sola”. E’ bastato un banale “alone” per evidenziare la rottura fra le élite: molto soddisfatte le élite imprenditoriali, furibonde ma finalmente silenti le élite intellettuali e politiche. Solo così l’Occidente può crescere.