Mia moglie ed io, come ogni anno, abbiamo trascorso una settimana a Vernante, porta d’ingresso della breve ma affascinante Val Grande, in provincia di Cuneo. Ospiti dell’hotel Nazionale della ultra centenaria Famiglia Macario, abbiamo fatto il solito ripasso annuale della cucina occitana presso i loro ristorante e bistrot. Quella occitana è una cucina non solo povera, ma chiusa, come “chiuse” sono state le comunità occitane italiane e francesi, immerse nelle Alpi Marittime, sulle creste di confine con la Francia (da una parte il blu del mare, dall’altra il verde e il grigio della montagna). Pochi gli ingredienti, ma di altissima qualità, creano una cucina “bianca”, dove l’acromaticità è data da farinacei, latticini, ortaggi poco colorati, come patate, porri, rape, l’aglio orsino, erbe spontanee, raccolte nei sentieri della transumanza e delle mitiche Vie del Sale. Michelin lo ha premiato con una stella (poco), immagino per i suoi sentori scandinavi, mi ricorda il Noma di Copenaghen prima maniera. Non potendo più lanciarmi in folli camminate in salita, ormai camminicchio, seduto ai bordi del torrente Vermenagna, lavoricchio (leggiucchio, scribacchio), diciamola tutta: vivacchio serenamente, come d’uso quando ci si avvicina ai novant’anni.
Ho letto un libricino Feltrinelli, comprato tempo fa su una bancherella, “Ancora un Giorno” di uno scrittore, già grande giornalista, di Pinsk (ieri Polonia, oggi Bielorussia), Ryszard Kapuscinski. Questi, aveva già seguito 27 rivoluzioni e relative guerre come reporter, quando nel 1975 andò in Angola per “vivere” la guerra civile e l’intervento dei cubani. Quando scrive il libro sono ormai passati molti anni, ci si avvia alla fine della guerra: ci sono guerre che paiono non finire mai, poi improvvisamente tutto precipita verso la pace. La lettura delle varie battaglie che si susseguono ha perso d’interesse, noi sappiamo già com’è finita, l’autore no, perché quando il libro esce la guerra non è ancora finita, anche se ha assunto connotati non più militari ma burocratici. Non è più guerra, ma non è ancora pace, di certo tutti gli attori sono stanchi e sfiduciati, sia chi difende, sia chi attacca, sia chi impoverisce senza capire cosa centri lui con queste oscenità. E tutti vogliono fuggire, come hanno già fatto i loschi che la guerra l’hanno scatenata.
Kapuscinski, rimasto intrappolato nell’assedio di Luanda, narra quello che avviene, che tipo di vita si pratica in una città “chiusa”, dalla quale tutti vogliono scappare. Ci ricorda una celebre scena del Titanic, nella quale i passeggeri, impazziti dal terrore, tentano di fuggire, seguendo i percorsi dei topi. Per primi, come al solito, scappano i portoghesi benestanti con masserizie e beni, quindi i negozianti (si pagano la libertà con i prodotti dei loro scaffali), poi i poliziotti e i tassisti (il taxi in guerra è un bene prezioso), quindi i netturbini, i barbieri, ultimi i cani.
E’ ciò che è successo nel nostro Parlamento, cinque anni di miserabile lotta politico-parlamentare sono finiti, i parlamentari e i loro ras, ancora circondati dai problemi drammatici che loro stessi hanno creato, sembrano topi impazziti, vorrebbero salvare le loro masserizie. La realtà ormai è chiara: ci ritroviamo, dopo cinque anni, trascorsi inutilmente, con un migliaio di falliti, capitanati dagli stessi tromboni, invecchiati di un lustro, e con i media ancora aggrappati a un modello culturale che continua a far acqua da tutte le parti.
Il problema non è tanto quando votare, ma per chi. Quanti impresentabili! Che successione di delusioni profonde! Amando l’Italia, soprattutto gli italiani perbene (siamo ancora tanti, tutti silenziosi, non partecipiamo a questi giochini, ci limitiamo a scuotere la testa di fronte all’arroganza di quelli che pensano di avere sempre ragione) ho un sogno. Che avvenga, come d’incanto, un rinnovo completo, affinché la XIX Legislatura sia nuova di zecca, nella testa e nel cuore di chi ne farà parte.
Tranquilli, è solo il sogno senza risveglio di un vecchio apòta che sempre più spesso fa suo un verso di Alda Merini “A volte si va via per riflettere. A volte si va via perché si è riflettuto”.