Il Forum di Davos è il classico salotto ove dei birbanti fingono per tre giorni all’anno, con discorsi alati, di essere normali. Per arrivarci hanno usato i più rapidi (e devastanti in termini di CO2) mezzi di locomozione, come i Gulfstream, gli elicotteri, le limousine. Solo all’ultima curva, prima che appaia l’hotel, sono saliti su una slitta trainata da un ecologico cavallo per fare le foto ufficiali.
Alla conferenza anche Greta Thunberg. Purtroppo ha dovuto prendere atto che i grandi della terra la invitano sì a parlare alle tribune più prestigiose, le mostrano comprensione, incassano in silenzio le sue sferzate ma quando si tratta di passare all’execution se ne fanno un baffo. Spero che cominci a capire di che pasta sono fatti costoro, e non ha ancora conosciuto gli asiatici, quelli che mangiano serpenti, che a loro volta si cibano di pipistrelli.
Dopo la celebre enciclica, se ne sta accorgendo anche Papa Francesco. L’accademico Luigino Bruni, da lui scelto per coordinare il Comitato scientifico di Assisi “The Economy of Francesco” in programma a fine marzo, lo esplicita: “Penserete mica che questi CEO si commuovano perché vedono un pinguino morire, un ghiacciaio sciogliersi, l’Australia che brucia? Questi hanno trimestrali da rispettare e se non lo fanno li licenziano …”. E allora addio alle stock option e alla bella vita. In effetti la realtà è questa, le piazze piene di giovani ecologisti sono banali flash sparati in un caveau illuminato.
Quest’anno, a parte i Big e i loro Assistenti, a Davos c’erano oltre 3.000 signori (poche signore) che rappresentavano l’establishment bancario, industriale, accademico, mediatico del mondo che conta. Per esserci (e dire un giorno ai nipoti “io c’ero”) hanno dovuto pagare una cifra più simile a una tangente petrolifera che a un ticket per un convegno.
Il menu di quest’anno ha un titolo pomposo “Stakeholders for a Cohesive and Sustainable World”. Chi sa leggere tra le righe capisce subito che “Stakeholder” è temine appiccicato. Lo si capisce leggendo i due menu operativi delle varie giornate, uno per i leader, uno per gli assistenti. Il catering intellettuale dei menu è fornito dal solito Ente finto superpartes, il Global Risk Report 2020. Alla sua stesura, mi dicono, hanno partecipato 750 esperti e “decision maker globali” (non ho ben capito cosa facciano, ma devono essere importanti).
Ecco le cinque portate del menu dei Leader: 1 Fallimento delle misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. 2 Armi di distruzione di massa. 3 Perdita importante della biodiversità e collasso dell’ecosistema. 4 Eventi meteorologici estremi. 5 Crisi idrica.
Ecco le cinque portate del menu degli Assistenti: 1 Conflitti economici. 2 Polarizzazioni politiche nazionali. 3 Ondate di caldo estremo. 4 Distruzione degli ecosistemi di risorse naturali. 5 Attacchi informatici alle infrastrutture.
Commento? Chiacchiere in purezza.
Dopo aver letto il titolo del Convegno e questi menu, soprattutto l’uso della parola fino a ieri proibita “Stakeholder” (il cui significato vero è umanità) sono rimasto senza parole. Possibile che questi leader, i cui atti conosco e studio da una vita, abbiano pensato a noi umanità, al futuro dei nostri figli e nipoti, alle minacce che paventa Greta? Mi chiedo: Davos non sarà mica una grande sceneggiata per tacitarci nel breve e gabbarci nel lungo?
Come finirà? Appena tornati a casa sostituiranno Shareholder a Stakeholder. A questo punto, lascio Davos e corro a Rimini a festeggiare i cent’anni di Federico Fellini. L’uomo che in anticipo ha raccontato questo mondo, denudandolo, e lo stato di totale (con)fusione fra realtà e incubi (mascherati da sogni) nel quale ci vogliono tutti fellinianamente immersi per farsi i fatti loro.
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Comunicazione di servizio
Come i lettori sanno, per licenziare un Cameo ci lavoro dalle 8 alle 10 ore. Il protocollo che seguo, cioè il modello Hunter Thompson, revisionato, in pratica stesura delle classiche 12.000 battute, ridotte poi, con un faticoso lavoro di tagli successivi, a 4-5.000, e “finissaggio” finale (questa tecnica in officina la si chiamava “lappatura”). E’ un processo di scrittura molto dispendioso in termini di energie spese e di tempo impiegato, non certo tipico del giornalismo. Stante le minori energie che ho ora a disposizione ho studiato una versinoe ridotta del Cameo, che dà per conosciuta (intuita) l’analisi che ne sta alla base, abbattendo così sforzi e tempi. L’ho chiamato "Mini Cameo di giornata", mi ricorda “l’uovo all’ostrica” che la mamma mi dava ogni mattina da piccolo, insieme a un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, per irrobustirmi. Incrocio le dita.
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