Le mie analisi non sono elaborate secondo i principi e i protocolli della politica, si basano sulla valutazione dei comportamenti organizzativi dei singoli, intesi come membri di organizzazioni umane complesse e articolate. In questo senso, il recente voto veneto (straordinario per il suo impatto sul territorio e sul paese) è figlio di un nazionalismo “dolce”, non certo rivoluzionario. Come diceva GianfrancoMiglio, il vero nazionalismo in Italia è il micro-nazionalismo, quello “fatto di aggregati tenuti insieme non in base a grandi principi o a grandi ideali, ma da un minuto reticolo di molteplici affinità e di radicate abitudini quotidiane”. Al di là delle chiacchiere intellettualoidi questa è la vita vera. Non abbandoniamola mai.
Interessanti le analisi post referendum lombardo-veneto della tre culture delle quali siamo purtroppo prigionieri. Quella ieri catto-comunista, oggi liberal del Pd (SergioChiamparino: “Altro che federalismo, vogliono randellare lo Stato”, tipica rozzezza politica da ex funzionario di partito), quella dei cacicchi del Sud (MicheleEmiliano: “D’accordo con il Nord, il futuro è delle Regioni ma le tasse non si toccano”, tipica volgarità politica di chi pretende solidarietà, doverosa, ma solo per continuare ad avere mano libera nello spreco), quella alto borghese e cosmopolita (PhilippeDaverio: “Flop a Milano perché i milanesi sono europei, non lombardi”, tipico volgarismo politico tardo medioevale di una classe che vuole continuare a vivere alle spalle dei lombardi, dei veneti, degli italiani che producono valore aggiunto autentico, e non campano di commissioni e di rendite finanziarie, non amano vivere nei salotti europei, aborrono farsi seghe mentali a spese di altri).
Facendo parte, come Daverio, dell’élite del paese mi permetto di dire ai colleghi: amici, uscite dagli algoritmi californiani ed entrate nel conto economico e nello stato patrimoniale italiano (per colpa nostra, i numeri dicono che siamo falliti), uscite dai salotti ed entrate nei blog popolari, uscite dal ruolo di consumatori ottusi ed entrate in quello di leader consapevoli. Tutti insieme prendiamo atto che il ceocapitalism ha rotto l’equilibrio sociale, la paura che avvince i nostri concittadini, i perdenti nella sciagurata guerra della globalizzazione selvaggia, non è figlia di emozioni superficiali ma qualcosa di molto più profondo. I più sensibili di noi sanno di essere malati, ma non sanno perché lo sono, e non hanno la più pallida idea di come curarsi. Inoltre non si fidano dei medici attuali, ad ascoltare loro sono sani e ricchi come mai nella storia dell’umanità, ma la dura realtà della vita ci dice che sono menzogne, colte ma menzogne.
Alcuni di noi passano da un board, a un centro benessere, a una comparsata in tv, alla recensione dell’ultimo libro che ci parla delle meraviglie del futuro, ma stiamo distribuendo cipria. Ci pavoneggiamo di vivere in una società tutta tesa al digitale, che dovrebbe risolvere ogni problema dell’umanità, trasformando il mondo in un’officina che produce a costi bassi prodotti e servizi da gettare nelle fauci di voraci consumatori, presto senza altri redditi che quello di cittadinanza. Un solo numero, tanto per capire lo scenario nel quale stiamo precipitando: ogni 100 $ di valore aggiunto complessivo, la quota di ricchezza distribuita al lavoro, dalla fine degli anni Novanta a oggi, è passata dal 64% al 55%, e come trend è in diminuzione. E per carità di patria non diciamo quanta ricchezza è finita invece agli establishment della società aperta.
Eppure la soluzione è lì, banale come tutto ciò che è già stato praticato dai nostri genitori e nonni, e da loro vissuto. Passa per tre parole, rigorosamente in quest’ordine: famiglia, scuola, azienda. Mentre le scrivo penso di provare lo stesso imbarazzo di voi lettori a leggerle, condizionato come sono dal politicallycorrect dominante, dal dover essere a ogni costo a la page, quindi vergognarmi se tocco il tema dei valori. Mi sono detto: ora basta! Respingo con tutte le mie forze il meticciato culturale e valoriale a cui ci hanno condotto élite sciagurate, attraverso l’imposizione di concetti del tipo: aziende sociali, scuole liquide, famiglie allargate. Proprio su questi tre istituti si gioca la vera rivoluzione 4.0, quella umana. Spieghiamo a questi analfabeti di ritorno come non si possa diventare digitali senza essere analogici sui valori.