Le tre domande che ho fatto a Stefano Parisi, alle quali ha risposto con squisita cortesia, avevano lo scopo, almeno per me, di capire che leader fosse, e se il suo movimento avesse le chance per giocare un ruolo strategico diverso dall’essere, come ha scritto un giornale, “uno dei tanti piccoli azionisti del prossimo governo della nazione ..”. Il processo che ci ha portato al referendum (volutamente stressato da Matteo Renzi), ci ha cambiati, costringendoci al primo caso di “voto-clava” non contro un partito, ma contro un leader. Il solco fra il 40% e il 60%, creatosi il 4 dicembre 2016, si è consolidato, siamo tutti incattiviti, ogni occasione è buona per bisticciare: la strada, la casa, le riunioni di condominio, i mezzi pubblici, il parlamento, i talk show, persino Forum, il format radical chic di Barbara Palombelli è irriconoscibile. Così Matteo Renzi, non è più lo stesso, per il 60% di noi la repulsione (politica) verso di lui si è accentuata, stessa cosa del 40% verso Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Diverso per Silvio Berlusconi, si era ridotto a una macchietta rispetto a quello originale del ’94, ora sono gli altri che sembrano lui.
Con questo spirito ho letto e riletto la risposta di Stefano Parisi, e sono rimasto deluso, non per ciò che sostiene, ineccepibile dal suo punto di vista, e ben argomentato, ma perché io, sbagliando, mi attendevo altro. Da dieci anni studio questa crisi (maledetta), sono stufo di fare analisi, di cogliere segnali deboli, sono vicino alla disperazione, cerco un’opzione alternativa, una qualsiasi, perché animalescamente percepisco come un evento incomba sul paese: il possibile arrivo dell’uomo forte.
Questo establishment che si riproduce per partenogenesi e che ci governa dalla “caduta del muro”, con la stessa ricetta, esaltata nei convegni ma dai fallimentari risultati sul campo (scomparso l’ascensore sociale, classe media impoverita, classe operaia sedata) deve prendere atto (e non lo fa) del suo stato di insolvenza, come farebbe qualsiasi imprenditore: i libri in tribunale, e si riparte. Hanno distrutto un’intera generazione, e altre due sono in ginocchio. Inutile continuare a fingere, l’Italia è un paese tecnicamente fallito, le ricette dei cosiddetti globalisti (al potere da un trentennio e, ripeto, responsabili della situazione, visto che il “modello” adottato è il loro) e dei cosiddetti sovranisti (no euro, no tutto) sono, o acqua fresca, o puro velleitarismo.
Il momento della verità si avvicina: il voto alle politiche mi ricorda il 18 aprile 1948. Altrettanto drammatico il dilemma che avremo: o il cosiddetto partito della nazione dei due bancarottieri (politici) Renzi-Berlusconi dei quali tutto sappiamo, oppure i “populisti”, cioè Di Maio-Salvini, dei quali poco sappiamo ma quel poco basta. In conclusione, siamo in un cul de sac.
E’ come se l’Italia si presentasse a una corsa di Formula Uno con due auto e due equipaggi non in grado di competere (telaio-propulsore scadenti, certificata inettitudine alla guida). Proseguendo nella metafora ci vorrebbe una safety car che depotenziasse tutte le tensioni nelle quali siamo avvolti e facesse il “lavoro sporco” della ristrutturazione del paese. Lo confesso, la mia speranza nascosta era che Stefano Parisi fosse disponibile a giocare un ruolo fuori dai due schieramenti, essere la safety car che guida la corsa per tutti i giri necessari al ripristino delle condizioni atmosferiche ottimali o quantomeno accettabili. Dalla lettera non pare sia così. Un establishment, come quello di cui faccio parte, che si rinchiude nelle ridotte di un miserabile partito della nazione di alto borghesi aggrappati allo statu quo, non è degno di essere élite. Peccato. Almeno, avranno valutato che questa scelta è un invito ad esercitare il “voto-clava”?
Riccardo Ruggeri