Con l’uscita di scena (provvisoria?) di Matteo Renzi, per noi commentatori indipendenti (e apòti) si è aperto un periodo di serenità linguistica. Fino al 4 dicembre, appena sbagliavi un verbo, una parola, ti toccava l’insulto di “gufo”. Mi ricordava i manifesti di quando ero figlio della lupa: “Taci! Il nemico ti ascolta”. Quando le elezioni comunali prima, il referendum poi, dimostrarono che i “gufi” avevano occupato tutte le periferie, mentre le truppe governative in alta uniforme si erano acquartierate nelle oasi del lusso (Parioli, Crocetta, Quadrilatero), il termine “gufo” cadde in disuso.
L’ha sostituito un termine meno gioioso: “populista”. Questo non è autoctono come “gufo”, ma ha una dimensione internazionale. Uno dei G7 perde un’elezione ed ecco comparire la terribile parola rivolta ai vincitori (in un mondo meritocratico, com’era un tempo l’Occidente liberale, i vincitori alle elezioni erano meglio dei vinti, qua vale l’opposto, gli sconfitti hanno sempre ragione). Vai su Wikipedia, e a fianco di “populista” trovi il Quarto Stato dipinto da Giuseppe Pellizza da Volpedo, perché da sempre il termine era riferito ai movimenti popolar-socialisti, e tu, cultore dell’eccellenza alimentare (quindi feroce nemico del Ttip), che in stagione mangi solo pesche di Volpedo (sono uniche), non capisci più nulla. Significa forse che ci possano essere pure populisti di destra? Mio nonno, comunista, li chiamava fascisti, ed erano al governo. Che confusione.
Ed ecco un nuovo insulto: “piagnone pessimista”, sempre rivolto agli ex gufi, attuali populisti conservatori, che si rifiutano di riconoscere che non siamo mai stati così bene, anche se hanno perso patrimonio e reddito. Leggo: “La povertà è in ritirata, i redditi in aumento, l’età media e la salute in crescita, l’analfabetismo in estinzione, le epidemie e le carestie nel dimenticatoio, etc. etc.” Un libro “Progress” (che sintesi meravigliosa) lo conferma, con caterve di numeri. L’autore, Johan Norberg sottolinea quali bias biologici, demografici, caratteriali, ci impediscano di decifrare quella che lui chiama l’attuale “età dell’oro”. Sono menzogne avvolte in carta stagnola ma pur sempre menzogne, non perché i numeri siano, singolarmente, sbagliati, ci mancherebbe (sono “prufesur”), ma nell’assemblaggio questi intellettuali d’accatto, specie se sono embedded a Wall Street, a Silicon Valley, al Cato Institute, li manipolano (come quei bugiardi di scienziati del clima che supportarono, con numeri falsi, il Nobel ad Al Gore). E non parliamo del filosofo Michel Serres (Académie française), costui non si è accontentato del rigoroso “Progress”, ha scritto “Viviamo in un paradiso”. Curioso, più ci impoveriamo più aumentano i buffoni di Corte.
Vorrei raccontare loro una storia, l’ho scoperta tempo fa in una trasmissione televisiva (Nicola Porro, Virus) dove ero presente con gli amici torinesi Giorgio Airaudo e Oscar Giannino, da allora l’ho definita, tanto per darmi uno spessore culturale, “Dottrina Airaudo”. Il padre del deputato Airaudo era un operaio Fiat (come me), aveva uno stipendio da operaio, partecipava ai soliti scioperi (atti dovuti), godeva del welfare Fiat (la sanità svizzera 2016, ancora oggi è nettamente inferiore), ebbe due figli, li fece studiare fino alla laurea. Con i risparmi comprò un alloggio di proprietà, a 60 anni andò in pensione. Una vita vissuta mantenendo al centro la dignità del proprio lavoro. Questo era il modello capitalistico, con uno spruzzo di paternalismo vallettiano, degli oltre centomila operai Fiat. Era una Torino forse triste ma ricca, poi un pezzo della sinistra tradì, la Fiat ci fu scippata, diventammo una (miserabile) città della cultura. Con il modello del ceo capitalism imperante sfido qualsiasi studioso a dimostrarmi che oggi un operaio italiano possa aspirare a una vita, e a dei risultati, come quella del papà di Airaudo. Il resto è fuffa statistica.
Nella mia letterina di Natale a Gesù Bambino mi auguro che nel 2017 non ci si insulti più con parole oscene come gufo, populista, piagnone pessimista, e similari, siamo tutti cittadini, nulla di più, nulla di meno, stufi di parole vuote.
Riccardo Ruggeri