Dai primi anni Duemila studio e scrivo sul CEO capitalism (copyright). Coltivo il mio
divertissement disegnando “scenari”. Alcuni, distopici, sono stati pubblicati da Grantorino
Libri come libri-incipit: “La pestilenza è finita. Sono tutti morti, quasi”, “La Terza Guerra
Mondiale di Gordon Comstock”, “Editoria & Amazon”, “Il Processo di Achille K.”. E così
“Guerra e Poesia”. Altri sono dei semilavorati per i Camei.
Quello di oggi parte da un’intuizione di Bill Emmott, ex direttore Economist, sulle aziende
tecnologiche i cui CEO, scrive, “si sono comprati la democrazia”.
Sintesi affascinante che condivido. Essendo stato uno di loro, conosco perfettamente come
ragiona, come funziona, come si muove sul campo di battaglia (il mitico Mercato) la triade
“Azionisti-Ceo-Investment Bankers” (i nuovi padroni del mondo occidentale).
Sono convinto (sia chiaro, “convinzione psicologica”, quindi senza uno straccio di prova)
che i bilanci di certe aziende che definisco di “successo a prescindere” siano costruiti con
modalità di nuovo tipo, che poi ne condizionano pesantemente il profilo economico-
patrimoniale.
Sia chiaro, nessun complotto del losco Klaus Schwab, i bilanci di queste aziende sono
impeccabili nella forma e nei contenuti, esattamente come prescrivono sia le leggi
internazionali sia quelle locali, e non potrebbe essere diversamente, stante le rigide regole
e i controlli sofisticati ai quali sono soggetti.
Io mi riferisco al momento in cui vengono costruiti, sulla carta, sia il budget annuale sia il
piano strategico pluriennale. Quelli che poi, a consuntivo, daranno origine ai bilanci
ufficiali, sono ruoli-attività che competono solo all’Azionista, tramite il suo Board,
sviluppate poi dal CEO, supportato dai suoi staff.
Nelle aziende normali lo schema è sempre stato lo stesso: si ipotizzano i ricavi, i costi, gli
investimenti, si processano i dati, e in fondo a destra compare un numero, prima e dopo le
tasse. Se è positivo si distribuiscono i dividenti, se è negativo gli azionisti dovranno
procedere, nei tempi previsti, a un aumento del capitale. Le aziende di “successo a
prescindere” invece sono sempre in profitto, dividendi e bonus sempre alle stelle. Perché?
Prima del CEO capitalism c’era il Capitalismo classico, in due versioni, quello “grezzo” (i
mitici padroni delle ferriere del primo Novecento), quello “illuminato”, detto anche
“paternalista”, tipo Henry Ford I, Adriano Olivetti, Vittorio Valletta, Enrico Mattei;
il ciclo si è chiuso con Michele Ferrero.
Questi consideravano gli azionisti alla stregua degli stakeholder, mettendoli entrambi al
centro della scena. Nel CEO capitalism vengono invece perseguiti (e massimizzati) solo gli
interessi degli azionisti, in particolare quelli rilevanti (e in primis il CEO), mentre gli altri
stakeholder vengono tenuti fuori dalla sala da pranzo, spesso sopportati con un certo
fastidio. Così le diseguaglianze sono esplose, perché così erano state pianificate nella fase
di execution del modello.
Qua invece nella fase previsiva i bilanci vengono costruiti invertendo il processo mentale
classico. Si stabilisce (è sempre stato il sogno di ogni CEO) prima il profitto netto, quindi i
dividendi per gli azionisti, il valore dei bonus-stock option del CEO, i compensi extra large
per i supporter embedded (banche d’affari, lobbisti, consultants, media). Nulla di illegale
sia chiaro, potrebbero spiegarti che si tratta di un “preventivo-sogno”. Secondo questo
approccio è evidente che la ripartizione dei benefici è totalmente sbilanciata a favore della
parte alta della piramide gerarchica aziendale. Estremizzando si potrebbe dire che, con
questo modello, dipendenti, fornitori, fiscalità (i mitici stakeholder) saranno sempre e
comunque ridotti a livello di sussistenza formale. E il rapporto qualità-prezzo dei prodotti-
servizi erogati sarà ottimizzato, in modo tale da penalizzare sempre e solo i clienti (quando
se ne accorgono ci sono tecniche per ricuperare).
Geniale l’idea. Come ci sono riusciti?
In silenzio. Passo dopo passo. Prima con la “globalizzazione selvaggia”, poi con la
“deglobalizzazione riflessiva”. Prima con “l’immigrazione selvaggia” poi con la finta
“integrazione riflessiva”. Costante sullo sfondo la “tecnologia selvaggia”, fattasi poi
“riflessiva”. Hanno separato culturalmente i giovani dai vecchi, ridisegnando il sistema
scolastico, il sistema sanitario, il sistema dei diritti sociali, ridotti ad ancella dei cosiddetti
diritti civili (tutti a costi zero). Hanno fatto indebitare sempre più gli Stati per ridurne le
capacità di manovra sociali, per poi aggredire i risparmi privati (“mobilizzare” è l’osceno
verbo utilizzato dai colti). Lo smartphone ai giovanissimi è stato lo strumento per
l’indottrinamento culturale di secondo livello.
Così sono riusciti, sia ad abbattere i redditi da lavoro delle classi medie e povere sia, in
simultanea, aumentare l’insicurezza sulla sopravvivenza della quasi totalità dei posti di
lavoro. Per quelli che il lavoro lo perdono, ed entrano in povertà, irrilevante sapere se è
colpa della globalizzazione o della deglobalizzazione o della tecnologia o delle guerre-
sanzioni o dell’intelligenza artificiale. Quel che vedono è un movimento inarrestabile delle
grandi ricchezze dalle campagne e dalle periferie operaie, alle Banche, alla Borsa, quindi
alle ZTL più rarefatte. Da tante persone perbene a poche persone spesso permale, se
vogliamo metterla in battuta.
Quando i lavori saranno solo poveri, e comunque mal pagati, quando le aziende medio-
piccole falliranno tutte, quando le multinazionali diverranno monopoli, quando i media
saranno tutti embedded al potere, quando il cibo, grazie all’eliminazione dei contadini, sarà
esclusivamente chimico (però bio), quando l’unico mercato libero sarà quello della droga e
della pedofilia, saremo entrati nel nuovo mondo del nuovo Millennio.
Ai (intelligenza artificiale) farà l’assemblaggio finale e governerà l’intero ambaradan, come
servo sciocco del potere.
In quel momento potremo togliere il punto interrogativo al titolo “I CEO si sono
comprati la democrazia?
Alla prossima puntata. Prosit!
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