Caro Renzi, oggi il lavoro è apolide. E quello di cittadinanza non esiste

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Ho ascoltato, compunto, Matteo Renzi, reduce da un curioso tour: Scampia, San Francisco, Cernusco sul Naviglio. Aveva preannunciato una mossa sul lavoro battezzandola “lavoro di cittadinanza”. Quando un premier parla in tv sono sempre cauto: a) lo ascolto in diretta e lo registro; b) lo riascolto in posizione mute, per capire, attraverso il linguaggio del corpo, se racconta bugie, se è sincero, se sono solo banali ciacole. Comunque, la locuzione si presta bene per i titoli dei giornali e pure per le slide, ma cosa significa?
Ha parlato, parlato, ma il suo nuovo storytelling finto-umile non è decollato, era moscio, se ne è accordo anche Fabio Fazio, imbarazzato. Un lungo preambolo personale, ed ecco il “lavoro di cittadinanza”. Non l’ho capito, non le singole frasi (chiare), non i sogni che lo pervadono (chiari), non gli obiettivi che si è prefisso (chiarissimi), ma quando arriva a quella maledetta execution, strutturata in costi-benefici-tempi-qualità, Renzi si incarta. Sappiamo che il “reddito di cittadinanza” dei pentastellati è una bufala, ma questo cos’è? I vecchi lavori socialmente utili? Boh.

Eppure il momento scelto per un suo rientro era favorevole, i transfughi gli avevano consegnato su un piatto d’argento, il bambolotto, un Partito della Nazione asettico (lo sognava da tempo); i moderati e le élite esultavano tirando le pietre a Massimo D’Alema. E lui che fa? Ci ripete gli stessi slogan di quattro anni fa nel linguaggio frusto della Leopolda. Patetico. Mi aspettavo che ridisegnasse un suo scenario esterno dopo Brexit, dopo Trump, dopo il referendum. Doveva dire la sua su domande topiche: a) Il suo modello di governo è ancora quello della democrazia liberale?; b) Il suo modello economico è ancora il libero mercato?; c) La sua globalizzazione è ancora quella originale? Nessuno pretendeva certo dei “No”, ma i suoi “Si” dovevano essere pieni di incisi, problematici, sofferti. La grande autocritica purificatrice sulla globalizzazione doveva avere spessore, doveva rispondere alla domanda: “Come pensa di risolvere i problemi degli “sconfitti” della globalizzazione? Eppure è stato a San Francisco, sarà pure la capitale del futuro, per ora è la capitale degli homeless. Ammettere gli errori colossali compiuti da tutte le leadership occidentali. I nostri nonni pensavano che il mondo globalizzato (1.0) sarebbe andato avanti senza fermarsi mai. Peccato, il 28 giugno 1914 si fermò: morti, feriti, poi Stalin, Mussolini, Hitler. Perché non potrebbe succedere ancora per la 2.0? Le leadership si rendono conto che stanno giocando con la dinamite?

Una feroce autocritica gli avrebbe offerto il destro per un reingresso nella politica, attaccando quelli che sono i ventri molli della globalizzazione: le multinazionali, Silicon Valley. Bastava chiosare un recente, spietato Economist. Riassumo alcune battute del lungo pezzo della Bibbia del liberismo: a) sostenitori e avversari considerano le multinazionali le più grandi predatrici mondiali; b) possiedono o gestiscono filiere produttive che movimentano il 50% del commercio, contribuendo con appena il 2% all’occupazione mondiale; c) i loro stessi padri le accusano di produrre diseguaglianza; d) gli accordi sovranazionali Tpp, Ttip sono falliti, gli arbitrati internazionali sono stati percepiti come modalità per aggirare i tribunali nazionali, sono ormai squalificate sul versante tasse e imposte. E qua mi fermo, non così l’Economist che scava ancora. Aggiungo una mia (modesta) chicca: l’accordo per la cessione di Opel a Peugeot è avvenuto solo dopo l’accettazione dei due contraenti del business plan imposto da Merkel. Chiaro come funziona il mercato e il mondo di lor signori?

Era l’occasione per dire che la nuova sfida era il ridisegno dell’attuale globalizzazione, non per ucciderla ma per salvarla. Perché, caro Presidente Renzi, il “lavoro di cittadinanza” (come tutti gli altri giochini dei vari redditi a sbafo o la tassa sui robot di Bill Gates) sono specchietti per gli allocchi, per evitare di discutere di lavoro, come patrimonio dell’umanità. Nell’attuale contesto il lavoro è “apolide” per definizione. Il compito della vostra generazione è far tornare il lavoro (e la sua dignità) al centro di tutto, ridandogli una cittadinanza. Senza l’accoppiata lavoro-dignità, vi ritroverete un mondo di zombie, seppur sempre connessi.

Riccardo Ruggeri

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