Silvia Russo (22) intervista Riccardo Ruggeri (90)
1 Durante il lungo periodo di addestramento passato al telefono con lei, prima che mi assegnasse la Rubrica “Il Teatro”, mi aveva illustrato la strategia concepita per Zafferano, che allora chiamava “Obiettivo 2030”, quando lei ipotizzava che i quotidiani cartacei di oggi sarebbero scomparsi, banalmente per la scomparsa fisica dei loro lettori. Quale la sua valutazione oggi, a tre anni data?
Non avevo valutato correttamente l’impatto della strategia politica-comunicazionale del CEO capitalism su certi segmenti di opinione pubblica occidentale. Quelli che hanno subito sulla loro pelle il fallimento della globalizzazione, dalla quale quelli legati alla finanza sono usciti sempre più ricchi, mentre quelli legati alla manifattura sempre più poveri (i mitici deplorables secondo l’imbarazzante definizione della élite dem americana). Bilancio finale: pochi supervincitori, molti sconfitti, tanti sfigati. Il limite drammatico del CEO capitalism è noto: uccidere le piccole-medie aziende e puntare tutto sulle grandi per ragioni legate alla produttività e alle economie di scala, senza capire che a quel punto, queste puntano a diventare monopoli. È ovvio che “sopra” ai monopoli ci possano essere solo “Autocrati”, ovviamente scelti dagli stessi monopolisti, non certo Parlamenti eletti, rissosi per definizione.
2 Vuole forse dire che in presenza di guerre, come quelle in Ucraina, in Palestina, in Yemen, etc., l’informazione diventa propaganda, e quindi si può affacciare la censura?
Nella storia del mondo questo è sempre avvenuto. Su tutto ciò che si riferisce a una guerra, le parti in gioco, e pure i loro alleati ufficiali o occulti, fin dal tempo dei Sumeri, praticano la propaganda, sostituendola all’informazione. E la propaganda presuppone la censura. Prenda ciò che è successo al tempo del virus di Wuhan, della guerra in Ucraina, poi di quella israelo-palestinese, per non parlare delle infinite chiacchiere sulla transizione climatica. È stato teatro dell’assurdo in purezza. Noi giornalisti, spesso a nostra insaputa, siamo diventati embedded a un testo teatrale già scritto, dove verità e menzogna si intersecavano in una infinità di incroci comunicazionali, e con personaggi di fantasia creati da sceneggiatori di regime a noi sconosciuti. Ricorda il mitico pipistrello che ci avrebbe trasmesso il virus rubandolo da un laboratorio cinese finanziato da occidentali? O i mitici sei velisti ucraini ubriachi che un sabato sera, per gioco, affittano una barca a vela, si travestano da palombari, si immergono a mo’ di batiscafo sette leghe sotto il mare, e fanno saltare il Nord Stream 2? E potrei continuare, raccontando reportage giornalistici che, pur appartenendo con tutta evidenza al mondo delle favole, venivano e vengono spacciati per verità.
3 Se fosse vera la sua analisi, cosa significa tutto ciò per noi giovani del mondo adiacente al giornalismo?
Sapere di entrare in un mondo che sta diventando sempre più strano. Anche il giornalismo nostrano, credo soprattutto per colpa degli editori, e di alcune direzioni e redazioni che li vogliono compiacere, sta precipitando nell’ossessione per le etichette, che in America ha assunto ormai le forme tipiche della più bieca discriminazione. Etichette identitarie, il cui primo comandamento, scrive con ironia Shalom Auslander, è: “Non dire niente di sbagliato, altrimenti ne morirai”. Ci vogliono convincere che siamo tutti diversi, quantomeno che le pecore bianche sono diverse da quelle nere. Basta spegnere il computer, cessare di essere follower di qualcuno o di qualcosa, disconnettersi dai social, non guardare i talk di regime, scendere in piazza, respirare aria pura, e scoprire che noi umani siamo tutti uguali. O quasi.
4 Quindi stiamo entrando, seppur dal buco della serratura, nel mondo della censura?
Ormai lei mi conosce, sa che sono un fissato della teoria secondo cui a qualsiasi domanda corrisponde sempre una risposta, e questa la trovi già in un libro, meglio se impolverato. Le suggerisco Compromesso di Sergej Dovlatov tradotto e edito un quarto di secolo fa da Sellerio, nato già impolverato. Un testo autobiografico di un giornalista russo di testate provinciali, sistematicamente licenziato (motivazione ufficiale “ubriachezza”, in realtà non allineamento al regime) ai tempi del triste comunismo brezneviano. A lui si è ispirato in parte il linguaggio zafferaniano prima maniera, l’ironia, l’umorismo che però non scivolano mai nella comicità, il sorriso che non deve però mai tradire il senso di angoscia, di impotenza che il vivere nel losco CEO capitalism ci crea. Quando fuggirà negli Stati Uniti Sergej scoprirà, e lo scriverà, che “l’America non è una filiale del Paradiso terrestre, e questa è stata la mia principale scoperta dell’Occidente”. Un genio assoluto! Perché era un uomo libero, seppur cresciuto nel comunismo più bieco! Non sapeva che cinquant’anni dopo sarebbe entrato nel più bieco wokismo, che costoro considerano democrazia avanzata. Ho speso molto tempo a riflettere su “L’America non è una filiale del Paradiso terrestre”, senza giungere ancora a nessuna conclusione.
5 Quindi noi giovani, giornalisti o lettori poco importa, dobbiamo prepararci a vivere in un mondo dominato dalla censura?
Onestamente non le posso ancora rispondere sì, come vorrei, però lo temo, i primi segnali, non più deboli, purtroppo ci sono. Il mondo del giornalismo attuale, editori e direttori compresi, è invecchiato male, è tanto moralmente inesistente quanto inossidabile alla vera libertà di stampa. Un giornalismo malato come l’attuale non è fatto per i giovani. In un mondo dominato dalla censura sarà importante trovare un linguaggio che sappia muoversi lungo i bordi del vivere, sempre ai margini delle tante linee rosse che la linea editoriale di sistema configurerà per i giornalisti, quindi per i lettori. È certo però che, se si verificasse uno degli scenari che ho ipotizzato nei miei divertissement strategici (per esempio, un accordo fra Occidente e Oriente che preveda una rigida “cortina di ferro digitale” fra questi due mondi, e soprattutto il mantenimento al potere a chi già ce l’ha, modello WEF per intenderci) torneremmo alle regole della guerra fredda novecentesca, con tutto ciò che ne consegue, anche per la stampa. Voglio chiudere con una frase dello stesso Sergej su Israele (lui era un ebreo russo) che sembra scritta ora, e non oltre cinquant’anni fa: “Detti un’occhiata alla carta geografica del Medio Oriente e rimasi inorridito. Un microscopico puntino azzurro. La parola Israele non ci stava neppure. La fine in territorio giordano, l’inizio in Egitto. E tutt’attorno inquietanti macchie rosa, gialle, verdi …. Sembrerebbe tutto così semplice. Tuttavia, l’umanità progressista, stupidamente unanime, condanna Israele. L’umanità progressista esige da Israele un nobile suicidio!”
Quanti quotidiani chioserebbero oggi queste parole, diventate cinquant’anni dopo definitive?
Il giornalismo di qualità, se vuole salvarsi dalla depressione-metastasi che lo sta divorando, ha un bisogno disperato di vecchi editorialisti semplicemente coraggiosi e, cara Silvia, di giovani intellettualmente sani e liberi. E di editori semplicemente perbene. 2 continua
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