Sono tornati i tempi in cui un ducetto decideva per i giornali

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L’ho già detto in conferenze, scritto su libri, su articoli, lo ripeto per i lettori di La Verità: sono nato in una famiglia operaia, meravigliosa. Il nonno sempre volle che lo chiamassi Nonno Stalin, la nonna Maria Caterina era innamorata di don Sturzo, papà Carlo, un misto di liberale e di socialista fabiano, mamma Brunilde, un’anarchica feroce ma dolce. Quattro ideologie diverse in 15 mq., mai nessuno alzò la voce, ognuno morì con la propria idea, senza deflettere, rispettando le altre. A me toccò la sintesi: fui semplicemente liberale, come stile di vita. Interessante il rapporto della mia famiglia con la libertà di stampa, cioè la La Stampa di Torino. Inizio ‘900, il nonno, immigrato dalla Lunigiana, è a Torino, vuole cambiare vita: da bracciante agricolo, molto povero ma colto, si candida a operaio, puntando a perdere il “molto” e diventare un povero semplice. Incontra la nonna, langarola, si sposano, il matrimonio funziona, il lavoro no. Riprendono le loro valige di cartone, vanno ad Apt in Provenza a cercar fortuna. Qua funziona, ora è operaio in una fonderia, povero semplice, ma colto, impara il francese, nasce mio papà (nel 1906, come il Toro). Tornano a Torino, operaio alle Ferriere Fiat lui, portinaia lei, sono entrati nell’upper class dei poveri (due salari e una casa, solo 15 mq, ma gratis). Essendo colti, ogni giorno comprano La Stampa di Alfredo Frassati. Quando costui pubblica un articolo non gradito al ducetto di allora (in realtà era l’originale), perde non solo il posto da direttore, ma pure la proprietà del giornale. L’afferra un Senatore di fresca nomina, il “padrone delle ferriere” del nonno. Per opporsi all’ingiustizia, i miei decidono di non comprare più La Stampa (letta a posteriori, una scelta che mi segnò). Per tutto il Ventennio nella portineria entrò solo la Gazzetta dello Sport. Riprendemmo il rapporto con La Stampa solo nel dopoguerra, non fu più la stessa cosa: ora eravamo una famiglia sempre operaia ma ricca di autostima, culturalmente cresciuta, da antifascisti a anticomunisti, e soprattutto (grazie all’intuizione di papà) anti azionisti. La Stampa era rimasta la Busiarda, via via ci riducemmo al solo articolo dedicato al Toro, il resto era manipolazione. Con l’uscita di Mario Calabresi e l’arrivo di Maurizio Molinari il rapporto è tornato quello degli anni ‘20. Dopo essere stato il miglior corrispondente dagli Stati Uniti, Molinari oggi è l’unico che sappia analizzare in profondità il rapporto Medio Oriente-America-Russia, nelle sue infinite sfumature. Nel periodo estivo, ove le grandi firme (spesso bollite, tutte filo governative) sono ai bagni, il giornale diventa splendido, Maurizio butta in campo i “primavera”, e si vede. In questi ultimi anni parlare di stampa libera è diventato un problema, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente. Per chi conosce i fatti quando sono ancora allo stato nature e poi li legge nella loro versione pubblicata, prova un profondo imbarazzo. Capita a me ogni mattina, alla lettura dei quotidiani. Se poi sei immerso in un periodo elettorale, come l’attuale in America (in piccolo, pure in Italia) cade ogni ritegno, i colleghi li vedi “tappettini”, ti vergogni per loro. Prendiamo il New York Times, ha scelto, senza se e senza ma, la candidata disonesta rispetto al candidato buzzurro, e fino lì passi (l’aveva già fatto con il suo losco marito), però qua esagera, scrive cose incredibili a favore di The Hillary e ne nasconde dieci volte tanto, perché negative (vedi il silenzio su Project Veritas Action di James Edward O’Keefe o i documenti di Wikileaks). Il Washington Post lasciamolo perdere, ormai rappresenta gli interessi del suo ingombrante padrone, Jeff Bezos proprietario di Amazon. E’ rimasto solo il Wall Street Journal. Degli inglesi meglio non parlare, si salva l’Economist, non certo per la linea editoriale “appiattita”, ma per l’eleganza nell’uso della lingua inglese. Dei giornali e delle tv nostrani ne parlerò dopo il referendum, quando dovremo tirare le somme di questa orrenda campagna elettorale, mesi buttati a scrivere di fuffa.
Riccardo Ruggeri

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